Se consideriamo cos’è che vogliamo dalla vita ci accorgiamo che ci deve essere una motivazione. Ma si tratta di qualcosa di infido perché se la nostra motivazione si basa su aspettative, risultati e conquiste da fare, allora ci sarà uno sforzo causato dal tentativo di realizzare gli obiettivi che ci siamo prefissi.
In termini di pratica buddhista il premio è solo una probabilità. Si tratta di una meta molto alta, o per lo meno noi siamo convinti che lo sia, ed è per questo che nell’intraprendere il cammino della pratica dobbiamo cercare di destrutturare le idee, le emozioni e i pensieri che ci siamo fatti. I nostri processi mentali ci fanno vedere questi obiettivi in termini astratti, metafisici, come un qualcosa procrastinato nel tempo. Possiamo dire invece, in parole semplici, che lo scopo della pratica è di stare bene, di penetrare il regno della sensazione, di ciò che ci fa sentire felici e brillanti, leggeri, pacificati, degni, mentre la mente ragionante tende a misurare e criticare.
Se ci riferiamo, ad esempio, al contenimento dei sensi, la limitazione dell’attività sensoriale è solo un’idea: sorgeranno commenti e impressioni negative, del tipo: “Non puoi fare questo, non puoi fare quest’altro”. Ma se lo sperimentiamo, il contenimento dei sensi ci porterà ad essere raccolti, composti e privi di bisogni.
Anche la moralità sembra essere rappresentata da concetti come: “Non devi fare questo, non puoi fare quest’altro”, ma di fatto ci fa stare bene perché non dovendo subire gli effetti distruttivi del comportamento scorretto non proviamo né senso di colpa né preoccupazioni. Il nostro cuore quindi sarà libero da colpa, biasimo o ansia e potrà vivere con soddisfazione e compostezza. È questo il punto: solo mettendo in pratica queste cose potremo fare queste esperienze.
In termini di meditazione parliamo di samadhi, cioè della capacità di concentrazione, di focalizzazione dell’attenzione. Ma quest’idea può essere causa di grande stress perché pensiamo sempre in termini di quantità: ossia cominciamo a misurare quanto siamo bravi senza riuscire mai a raggiungere il nostro standard ideale. Ma il samadhi in realtà è un frutto, è un risultato, non qualcosa che dobbiamo conquistare: è qualcosa che matura come conseguenza di tutte le altre pratiche. È una realizzazione piuttosto che un’aspettativa. Ci sono vari modi per avvicinarvisi ed è proprio nei mezzi e negli strumenti che dobbiamo mettere il nostro impegno. Questi mezzi sono sila (moralità e limitazione dei sensi) e consapevolezza, là dove la consapevolezza, cioè la capacità di portare la mente nel momento presente, è un grosso allenamento a stare con il momento presente senza creare una ridda di aspettative e giudizi. In questo modo la qualità stessa della limitazione dei sensi alleggerisce naturalmente la quantità di cose di cui dobbiamo essere consapevoli rendendo così più semplice e chiaro lo sviluppo delle relazioni e la nostra risposta alle cose. Proprio come un giocoliere non comincia con cinquanta palline, ma con una o due alla volta per poi passare a quattro o cinque, noi possiamo sviluppare le nostre capacità e il nostro equilibrio partendo da un livello semplice, cercando di vedere ciò di cui abbiamo realmente bisogno.
L’approfondirsi dell’apprezzamento e del senso delle cose è un aspetto della meditazione. Ciò non significa che stiamo perseguendo una sensazione particolare, o che stiamo cercando di non provare sensazioni, ma piuttosto che sappiamo come sentire. Si tratta della qualità della sensibilità e non della stimolazione, perciò gran parte della meditazione riguarda oggetti neutri o quasi. Poiché un aspetto del cammino meditativo comprende la calma e la concentrazione, è consigliabile sviluppare maggiore sensibilità e fermezza. La chiave sta nel darci tutto il tempo necessario per sentire il nostro corpo: se siamo impazienti di concentrarci ci stiamo precludendo la possibilità di farne l’esperienza. Ho già parlato di vitakka e vicara: vitakka è la capacità di dirigere la nostra attenzione e vicara è la sensibilità in grado di ricevere ciò che stiamo osservando. Entrambe hanno bisogno di essere sviluppate nella stessa misura perché se non facciamo altro che focalizzare la nostra attenzione, se cerchiamo di restare concentrati, di fissare a lungo la nostra attenzione sul respiro, o su un altro oggetto particolare, non ne trarremo nessun beneficio, né alcuno stato di benessere. Bisogna sentire le cose semplicemente così come sono, come si sente il corpo o una parte di esso.
Man mano che esercitiamo la sensibilità della mente sorgerà un senso di benessere. È importante guardare con attenzione e sviluppare questo aspetto particolare della sensibilità, di vicara. Ciò significa, ad esempio, che possiamo anche fare a meno per un bel po’ di tempo di concentrarci su di un punto particolare. Invece di focalizzarci su di un punto specifico del corpo o del respiro, osserviamo come è possibile sviluppare una sensibilità a largo spettro. L’accento viene posto più sull’ascolto, sul ricevere e accettare ciò che si sente: che la natura della sensazione sia piacevole, neutra o addirittura leggermente spiacevole, non è questo il punto.
Osservare la sensazione
Ci accorgiamo quindi che l’essere ricettivi farà emergere naturalmente un piacevole senso di calma e sostegno. Possiamo anche cominciare con una parte specifica per poi passare al corpo nel suo insieme, ad esempio possiamo chiederci: “Che cos’è il mio corpo in questo momento? Come si sente?”. Non pensiamo in termini di mani, piedi e testa, c’è solo un’impressione sensoriale generica. Possiamo sperimentare un formicolio, delle pulsazioni, calore, pressione, spaziosità, espansione, intorpidimento, sensazioni acute o soffocate. Osserviamo semplicemente l’esperienza del corpo come fosse una mappa di sensazioni e cominciamo a guardare come ci rapportiamo a questa esperienza. Focalizzandoci su una sensazione acuta potremmo accorgerci che intorno a essa c’è tensione; se proviamo pressione o durezza possiamo sperimentare come la nostra mente faccia resistenza e la respinga. In questo caso dobbiamo cercare di ammorbidire la nostra reazione, di essere più accettanti, più aperti a quella sensazione, dobbiamo permetterle di penetrare la nostra mente. Se in alcuni punti proviamo tensione, cerchiamo di sentire l’esperienza della tensione e come ci rapportiamo a essa.
In generale, cerchiamo di mantenere la nostra mente calma e ricettiva verso tutto ciò che viene sentito: una mente che non afferra e non respinge, ma che è semplicemente aperta a quella particolare sensazione. Accade allora che la qualità della sensazione diventa più vibrante sul momento. Sono le risposte e le reazioni della mente che rendono la sensazione solida e permanente. Se la mente diventa più leggera allora anche la sensazione diventa più effimera, passeggera. E a sua volta la mente diventerà più leggera, meno spaventata ed esigente.
Cominciamo a sviluppare questa pratica attraverso l’intera mappa del corpo, così da poterne riconoscere le varie zone e collegarle fra loro. Possiamo focalizzarci su una sensazione particolare e notare come, intorno a essa, si trovi un area meno sensibile. Cerchiamo di sviluppare la mobilità dell’attenzione quando desideriamo spostarla da una sensazione più forte a una più debole, a una spiacevole, a una neutra, a una piacevole. Mantenendo l’attenzione mobile e flessibile cominciamo a liberare alcune delle tensioni e pressioni del corpo. Se invece ci focalizziamo intensamente su una sensazione specifica anche la mente sarà tesa, mentre lo scopo è proprio quello di rendere la mente meno tesa, più leggera e malleabile. È come massaggiare il corpo, o come avere una spugna tra le mani e lavorarla fino a farla diventare morbida e vaporosa. Questo significa che a volte la mente è vigorosa e a volte gentile, ma lo scopo è sempre quello di allentare le tensioni presenti nel corpo e creare benessere.
Se coltiviamo l’attenzione durante la meditazione, alcune cose diventano più chiare. Innanzitutto quando ci viene chiesto di custodire e osservare semplicemente il respiro, ci accorgiamo che la qualità dell’attenzione non è né pura né neutra: è impaziente, critica, soggetta a cambi d’umore. Se non otteniamo i risultati voluti ci sentiamo contrariati. Con un’attenzione più sviluppata possiamo vedere come, attraverso di essa, possiamo far emergere uno stato di benessere e agio. Ossia, se l’attenzione è indirizzata ad ammorbidire, a creare benessere, a ricevere semplicemente il nostro corpo in maniera gentile e amorevole, allora otterremo dei risultati diversi.
Attenzione e retta intenzione
È qualcosa di gradevole. Può darsi che all’inizio non notiamo una grande differenza a causa dell’abitudine, ma col tempo l’attenzione diventerà senz’altro qualcosa dagli effetti benefici e terapeutici. Nel linguaggio del Buddha l’attenzione, manasikara, è accompagnata dall’intenzione, cetana ed entrambe si sostengono e condizionano a vicenda. Ciò verso cui fissiamo la nostra attenzione tende a condizionare la qualità dell’intenzione. Se abbiamo un gatto o un criceto, un esserino peloso e morbido, proviamo piacere ad accarezzarlo. Ma se rasiamo il gatto non proveremo la stessa sensazione: un gatto rasato è una creatura orrenda. Ma il gatto dice: “Cosa ho fatto di male? Cos’è successo? Sono sempre io”. È il nostro contatto visivo, l’impressione visiva, che condiziona l’intenzione. La qualità dell’attenzione fa sua l’impressione visiva ed è questo che determina l’intenzione del cuore.
Tutto ciò è estremamente significativo, l’intenzione è la motivazione, anche se può non esserci perfettamente chiaro a causa del fatto che per la maggior parte del tempo noi mentiamo, verbalmente oppure in maniera più sottile. Affermiamo di voler fare qualcosa che in realtà non vogliamo fare, ma pensiamo che basti dirlo perché la vita sia più facile. Spesso non possiamo ammettere, non possiamo confessare le nostre reali motivazioni, abbiamo bisogno di escogitare delle ragioni socialmente accettabili. A volte è così immediato che siamo i primi noi a non accorgercene, non sappiamo neppure cosa stia succedendo.
Lo scorso novembre avevo ricevuto un invito per andare ad insegnare in Polonia. Sarebbe stato umido, piovoso e freddo e pensavo: “Non voglio andare in Polonia, credo proprio che sarebbe meglio rimanere qui per aiutare il monastero”. Poi, in dicembre, qualcuno mi ha chiesto: “Sei disposto ad andare in Spagna il prossimo giugno?”. E io ho pensato: “Non devo essere egoista, bisogna proprio che vada…”. Se consideriamo la Polonia in dicembre e la Spagna in giugno…
Questo esempio ci mostra una circostanza in cui la capacità di mentire è veramente raffinata, immediata. A volte non possiamo ammettere, non possiamo confessare un interesse personale. In realtà ritengo che se ci chiediamo veramente cosa vogliamo e osserviamo la motivazione, l’interesse personale, allora possiamo entrare in contatto con ciò che sta accadendo realmente. Allora vedremo quella particolare sensazione e la potremo lasciare sorgere e svanire nella mente così da non rimanere intrappolati. Contemplando i due inviti che avevo ricevuto, ho pensato: “Andrò in Polonia il prossimo dicembre”. In realtà non ha nessuna importanza, è solo una sensazione. Onestamente, si tratta soltanto di voler provare una certa sensazione. Sappiamo che cosa è una sensazione e quindi possiamo lasciarla sorgere e passare, non c’è bisogno che si impossessi di noi. Spesso, quando non riconosciamo le nostre vere sensazioni, esse rimangono lì, si impossessano di noi e restano sullo sfondo come un’impressione ombra e, anche se il nostro cervello, la nostra mente sta pensando altre cose, il cuore in realtà non sta con ciò che stiamo facendo. Allora facciamo le cose forse per un senso del dovere, ma nel cuore non c’è gioia, il cuore non è con ciò che stiamo facendo e in questo stato la mente crea una sorta di mondo ombra. E le caratteristiche del mondo ombra sono che i suoi abitanti sono i ‘devo’ e i ‘dovrei’, e questi ‘devo’ e ‘dovrei’ non sono esseri reali, sono neutri, castrati. Anche nel nostro cuore, ci sentiamo impersonali. Quando vediamo veramente tutto questo, chiediamoci quanta parte della nostra motivazione risiede nel regno dei “vogliono che faccia questo, è così che dovrebbe essere”. Quando temiamo che non facendo una determinata cosa saremo rifiutati e allontanati vuol dire che la nostra vita è controllata proprio da queste forze impersonali e neutre, mentre cetana, l’intenzione, la volizione, ne è schiava. Ci sentiamo quindi trascinati da strani dubbi, rimpianti e incertezze che, per quanto ci sforziamo, non riusciamo mai a soddisfare. C’è sempre una voce che ci sussurra da dietro le spalle: “Non ce l’hai fatta, non sei abbastanza bravo”.
A causa di questo è impossibile vivere pienamente, in maniera pura e luminosa e nella meditazione il cui unico scopo è di essere chiari, tutto ciò si acuisce, perché in questo caso il nostro senso di chiarezza viene impedito dall’impressione che dovremmo essere chiari e non lo siamo. Cerchiamo di essere all’altezza di un qualcosa che vogliamo ottenere, ma che non sappiamo neanche comprendere. È una profezia che si auto-realizza, è un’esperienza dovuta al modo in cui la mente agisce. A volte ci sono cose, anche semplici, che non riusciamo a fare perché la nostra mente è impedita dall’esitazione, dal dubbio e dal rimpianto. In questo caso è l’intenzione che condiziona l’attenzione.
La prigione della mente
Quando cerchiamo di contemplare il respiro, di osservarlo con questo particolare atteggiamento, l’esperienza sarà di inadeguatezza e di conseguenza l’intenzione stessa sarà innaturale e inadeguata. Ci si abitua a questa qualità, questo atteggiamento verso noi stessi diventa normale. Non accade forse che ciò che consideriamo il nostro corpo, la nostra mente (soprattutto la mente), da un punto di vista dell’io, è segnato dalla caratteristica di avere un’attenzione confusa e incerta? Quando prendiamo in considerazione noi stessi, qual è l’umore della mente, come si sente, che tipo di impressioni emergono? Sperimentiamo un senso di limitatezza e imperfezione? Sentiamo di non essere all’altezza? Proviamo allora una sorta di accettazione rassegnata, che non è certo un’accettazione lieta, è solo un stato d’animo. Non possiamo certo dire che questa qualità dell’attenzione sia dotata di chiarezza, gentilezza, compassione, consapevolezza o saggezza, e questo, naturalmente, ricondiziona la nostra intenzione. Cominciamo allora a guardare quel particolare stato mentale che si è creato e ci accorgiamo che è scuro, grigiastro, inadeguato. Tutto questo ha un effetto sulla qualità dell’intenzione e pensiamo: “Che senso ha tutto questo, che posso fare?”. Oppure ci sentiamo in qualche modo frustrati. Mettiamo in atto un circolo vizioso: l’attenzione negativa si ricicla in intenzione negativa che a sua volta si ricicla in attenzione negativa e diventa sempre più forte.
È come se ci trovassimo in prigione in regime di isolamento: non lo consideriamo certo come l’esperienza di un ritiro, ma come una forma di punizione. Quando facciamo un ritiro di meditazione può darsi che ci capiti di vivere un’esperienza simile, di sentirci in prigione. Una delle impressioni che sorgono durante un ritiro è quella di volersene andare. Fin tanto che la riconosciamo va tutto bene. Non è necessario avere pensieri o impressioni speciali in un dato momento, non dobbiamo provare delle sensazioni particolari. Dobbiamo solo essere pronti a riconoscere la sensazione che c’è in quel momento e i modi in cui la mente prende quella sensazione e la proietta.
Durante un ritiro, o se viviamo in monastero, spesso pensiamo: “L’insegnante è il mio carceriere e probabilmente mi disapprova” e ogni volta che udiamo la campana pensiamo: “Oh, devo fare questo, devo fare quest’altro”. Possiamo vedere tutto questo e che la nostra attenzione è molto selettiva. Se sullo sfondo della mente c’è questo tipo di scenario allora finirà per condizionare l’intenzione che sceglie gli oggetti che la sostengono. Facciamo l’esempio di una persona che vive in un monastero; c’è chi sceglie di andare in un monastero perché c’è tranquillità, non ci sono radio che suonano, né chiacchiere o risate, è un luogo calmo e questo può piacerci molto. Poi ci sono gli insegnanti che ci istruiscono al Dharma: è meraviglioso, è tutto gratis, il cibo viene offerto dai laici, se siamo monaci non dobbiamo neanche cucinare, si lavora 4 o 5 ore al giorno e la sera possiamo sedere tranquillamente in meditazione con gli altri monaci e monache, godendo del silenzio e della compagnia di persone altamente morali. È il paradiso. Dura forse qualche giorno e poi: “Perché è così tranquillo qui? Perché non si fa mai niente di divertente? Perché non possiamo ascoltare della musica? Il cibo non mi piace, perché non possiamo mangiare quando si ha fame? Perché l’insegnante fa sempre dei discorsi così noiosi? È un inferno qui!”.
Le cose vanno così. Non c’è bisogno di biasimare o di giudicare, ma solo di riconoscere questo tipo di processo. Proviamo dolore, dubbio o ci sentiamo feriti, preoccupati, solo perché alla base c’è una sensazione non riconosciuta e, invece di riconoscerla e aprirci a essa, cerchiamo di trovare una scappatoia, ci irrigidiamo e tiriamo avanti senza avere veramente contemplato la sensazione. Se proviamo qualcosa, pensiamo che questo sia ciò che siamo e che facciamo. Se proviamo avversione, crediamo che la nostra natura sia l’odio, ossia qualcosa che non dovremmo essere e non dovremmo avere. Se ci sentiamo dubbiosi, insicuri o un po’ spaventati e nervosi, questo è qualcosa che non dovremmo provare. Dovremmo essere coraggiosi e fiduciosi. Sono questi ‘dovrei’ che creano continuamente un alone di falsità, che rendono torpida e ottusa la nostra vera sensibilità. Nella meditazione questa è la resa dei conti, è il finale, perché se stiamo praticando con chiara intenzione, allora ci siamo soltanto noi qui e la nostra intenzione. Non c’è misurazione riguardo tutto questo, non c’è giudizio, semplicemente è così e noi abbiamo la capacità di ricevere ciò che siamo, di confidare in noi stessi, di assicurarci questa sorta di autorità, di permesso, di fiducia. Anche se possiamo pensare: “Ma se non riesco a fare tutto questo, cosa accadrà?” dobbiamo riconoscere il potere di quella particolare intenzione, di quel particolare senso di concessione, di fiducia e di sincerità, perché è un’intenzione molto potente, non è un pensiero o un dogma, non è una filosofia, è una naturale sincerità del cuore. Così cetana, questa qualità volitiva, condiziona l’attenzione. Per cui se la nostra intenzione è sincera, accurata e disposta a riconoscere le cose così come sono, quello che vediamo non sarà più offuscato da una cortina di giudizi e rimpianti, dubbi e pregiudizi.
Ogni cosa è unica, non esistono momenti ripetuti, non ci sono momenti che continuano.
La fame di sensazioni
Quando proviamo una sensazione dolorosa nel corpo come la consideriamo? Non si tratta di come dovremmo agire, ma di quale effetto ha su di noi. Se provo dolore sperimento il desiderio che se ne vada, oppongo resistenza e tensione. Se seguo questo impulso, se mi irrigidisco, allora divento impaziente e desidero solo che finisca. Oppure ci troviamo in sala di meditazione e stiamo seduti tutti composti perché ci sono altre persone. Quando accade questo spesso cominciamo a provare un sottile risentimento verso quelle persone perché è a causa loro che proviamo dolore, vorremmo solo potercene andare in camera nostra e fare quello che ci pare. Chi ci sta trattenendo? Chi ci ha segregato? È possibile non autorecludersi? Il punto è proprio di non rinchiudersi, ovvero riconoscere la resistenza al disagio, a ciò che è doloroso e che proviamo davvero nella nostra mente; non è semplicemente un pensiero, possiamo veramente sentire nella mente un’energia che spinge contro quella sensazione e quando riusciamo a entrare in contatto con quella particolare intenzione di resistere al dolore possiamo rilassarla. Avremo dunque una sensazione neutra, né piacevole né spiacevole, semplicemente neutra. È difficile da accettare perché noi vogliamo qualcosa di più interessante, perché la nostra intenzione è piena di brama.
Di nuovo, se riconosciamo questa fame di sensazioni potremo vedere che si tratta di un’attività che tenta di scovare, attirare e trattenere le sensazioni. E la possiamo rilassare. Lo stesso accade con una sensazione piacevole: anche se vogliamo accumularla e trattenerla possiamo rilassare questa intenzione. L’intenzione è come il muscolo della mente, è la cosa che si estende e si contrae, che va a caccia e che si affanna. Quando ci focalizziamo seriamente sull’intenzione non abbiamo bisogno di farci delle idee, è come rilassare i muscoli del corpo; allo stesso modo possiamo rilassare quel muscolo della mente e se lo facciamo, in quel momento sperimenteremo il lasciare andare. L’esperienza del lasciare andare è come un senso di apertura, di spaziosità, di gioia, di luminosità ed è questo il modo in cui la pratica si sviluppa perché ogni volta che c’è un momento di rilassamento, e ce ne accorgiamo, questo influenzerà la nostra intenzione e con l’andare del tempo l’intenzione stessa diventerà meno spaventata, meno esigente e meno ostile. È così che cominciamo a progredire, che cominciamo a spazzare via il kamma negativo, gli accumuli negativi.
La pratica sul corpo è particolarmente utile perché il corpo è troppo stupido per mentire come fa la mente, ci dice direttamente cosa sta accadendo e poi è più lento. La mente è come un fantasma, un miraggio che guizza veloce, mentre il corpo tende a mantenere le impressioni ed è possibile vedere con maggior chiarezza. Coltivando il corpo potremo osservare come stiamo coltivando contemporaneamente anche la mente, perché la mente e il corpo sono interdipendenti. Cominciamo così ad accumulare e realizzare i mezzi abili di cui abbiamo bisogno per lavorare con i nostri stati emotivi e psicologici.
Durante un ritiro ci stabilizziamo nella meditazione, ci stabilizziamo sugli oggetti della nostra attenzione e il mio suggerimento è di usare le sensazioni che sorgono nel corpo, concentrandoci su quelle connesse al respiro e sviluppando questi due aspetti di vitakka e vicara, cioè focalizzando la mente e sensibilizzandola. Questa pratica aiuta a sottrarre terreno fertile agli impedimenti, la strategia quindi è di fornire alla mente un oggetto che sia abbastanza gradevole, in modo da impedire che sorga il desiderio dato che abbiamo già un rifugio piacevole. Inoltre questo senso di agio fa sì che il nostro corpo sperimenti un senso di luminosità e benessere che impedisce all’irritazione di sorgere.
Anche gli altri impedimenti, ovvero il dubbio, l’irrequietezza, la noia sono neutralizzati da questa pratica. Con l’irrequietezza possiamo usare quel particolare tipo di energia che sta dietro alla preoccupazione per sviluppare l’investigazione. Questo è investigare veramente l’oggetto di meditazione, la qualità e la sostanza delle sensazioni, e in questo modo la mente si sente appagata, la sua irrequietezza viene placata dall’avere qualcosa da fare.
La pratica porta la gioia
Il termine vedana, che traduciamo con sensazione, si riferisce alla sfumatura specifica della sensazione; abbiamo una sensazione fisica che è una specie di stimolazione e ne traiamo un senso di piacere. Vedana dipende inoltre dalla qualità dell’attenzione. Se l’attenzione stessa è gentile, morbida e ricettiva, la qualità della sensazione sarà raffinata e piacevole. Se invece l’attenzione è grossolana, esigente o annoiata, allora la sensazione non sarà né piacevole né sottile. Quando parliamo di samadhi, il termine concentrazione non rende esattamente il significato, perché il samadhi comprende le due qualità di vitakka e vicara. È necessario un equilibrio estremamente saggio. Se non siamo estremamente attenti, se ci sforziamo troppo, mancheremo di sensibilità. Samadhi infatti non significa aggrapparsi stretti all’oggetto di meditazione, è qualcosa di molto più malleabile e saggio di questo. In pratica richiede una capacità costante di risposta, è come lo sforzo che compiamo per mantenere in equilibrio un oggetto delicato nella nostra mano: non possiamo stringere troppo forte, dobbiamo assecondarlo, dobbiamo mantenere la nostra attenzione morbida e flessibile perché rimanga in equilibrio. Gli estremi dell’equilibrio ci portano, da un lato, a essere troppo lievi e allora la nostra mente non è veramente concentrata, è sonnolenta e annoiata, e dall’altro se mettiamo troppa forza, diventiamo tesi. Naturalmente è proprio qui che la qualità di sati, la consapevolezza, è necessaria per coltivare il samadhi. È un riportarsi continuamente alla qualità dell’intenzione, cetana e verificare quale motivazione, quale approccio, quale spinta stiamo mettendo nella nostra pratica. Quando i mezzi abili sono presenti acquisiamo una capacità di sentire che non ha nulla a che vedere con la sensazione, è una sensibilità che viene dalla mente stessa, non ha a che fare con il contatto fisico, ma con la purezza intrinseca della mente, la sua leggerezza, il suo essere raccolta. Questo si verifica, ad esempio, quando facciamo qualcosa volentieri, in quel momento la mente è leggera. Quando stiamo facendo qualcosa perché ci piace, perché lo vogliamo, si verificano allora uno stato mentale e un umore luminosi. Tutto questo è profondamente associato con l’intenzione e l’attenzione piuttosto che con il corpo. In pali questo stato si chiama piti e dà origine a un’altra sensazione sottile chiamata sukha. Piti si ha, se siamo un artigiano, quando stiamo intagliando qualcosa e siamo veramente interessati a quello che stiamo facendo, siamo completamente presi, magari ci viene da canticchiare o fischiettare. Poi quando abbiamo concluso il nostro lavoro e lo guardiamo, pensiamo: “È proprio bello”. In quel momento proviamo la qualità di sukha. Sono due tipi di sensazioni. Quando sono presenti vitakka-vicara, piti e sukha, allora la mente si sente naturalmente lieta, è felice, unificata. Questo è ciò che chiamiamo samadhi.
Il Buddha ha detto che una mente felice è naturalmente concentrata. È importante ricordarci di questo quando verifichiamo la nostra pratica di meditazione. Gli atteggiamenti che non danno origine a questo senso di concentrazione, di entusiasmo, di coinvolgimento in ciò che stiamo facendo, di senso di soddisfazione, sono degli impedimenti. In termini di pratica, la tecnica o l’oggetto di meditazione che scegliamo dovrebbe essere quello che ci dà la possibilità di tenere questi fattori uniti, e il modo in cui pratichiamo dovrebbe tenere presenti tutti questi fattori. Se preferiamo praticare con il respiro, allora una cosa da tenere a mente, assieme al respiro è che stiamo già respirando, non dobbiamo sforzarci di farlo, ci sta già accadendo, si tratta solo di imparare a respirare in modo molto gentile, innocente. Tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere il nostro respiro.
del venerabile Ajahn Sucitto
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Traduzione di Samira Coccon
DISCORSO TENUTO IL 16 APRILE 1998 MONTEFIOLO. (Sati, 1998, n. 3)