La pratica è un processo, è utile ricordarsene. Quando andiamo in ritiro ci sottoponiamo a un processo, che è qualcosa che ha i suoi tempi, un suo ritmo, una sua energia: il ritmo e l’energia del nostro karma, delle nostre aspirazioni, delle nostre virtù, delle nostre difficoltà. Noi lo facilitiamo fornendo lo spazio, la struttura, in cui certi cambiamenti possono avvenire, in cui certe cose possono sbloccarsi e risolversi e in cui a tempo debito possono emergere certe intuizioni profonde. Il processo che intraprendiamo è quello delle Quattro Nobili Verità: la sofferenza, la sua origine, la fine della sofferenza e il sentiero.

L’esperienza del Dhamma si svolge a più livelli. Ci sono le tecniche, che sono metodi o modi ben precisi di fare le cose; ci sono le pratiche, ossia temi nel cui ambito si possono applicare le varie tecniche; e poi c’è il processo, quello strano miscuglio che esce fuori quando applichi il tutto a te individualmente.  E’ come cucinare una zuppa. Mettiamo che vogliate fare un minestrone. Qualcuno vi dice: “Devi metterci i peperoncini, l’erba cipollina e le cipolle, di quel certo tipo, in questa proporzione, verrà perfetto.  Se poi intingi i peperoncini nell’olio d’oliva prima di buttarli in pentola, è il massimo”. Questa è la tecnica. Ciascun cuoco ha la sua specialità che gli riesce a perfezione. La pratica è cucinare una zuppa. E il risultato del processo è il tuo tipo particolare di zuppa. Che viene fuori quando scopri che i peperoncini e l’erba cipollina non ce li hai ma potresti usare le carote e la pasta. Fai per mettere le verdure nella macchinetta ma ti accorgi che non funziona; quindi devi tagliarle a mano e con una forma diversa, per cui al posto delle finissime listarelle ti ritrovi dei pezzettoni irregolari. Comunque sia li butti in pentola e metti il tutto sul fuoco, magari non proprio alla giusta temperatura raccomandata dal maestro chef… Due ore più tardi, e dopo un bel po’ di preoccupazione, tensione e agitazione…  ecco il minestrone! E se qualcuno lo assaggia e dice: “Mmmh che buono! Come l’hai fatto?”, gli rispondi: “Sai, ho una tecnica speciale!”.

Qualcosa di simile alla pratica del Dhamma. In realtà, si può solo dare un tema generale di riferimento. Il bello è che il Buddha ne aveva così tanti di questi temi che metterne insieme anche solo tre o quattro dà già un ottimo strumento per orientarsi. Per cui c’è la pratica dei brahmavihara – gentilezza amorevole, compassione, gioia partecipe ed equanimità – c’è la pratica di sila, che significa comportarsi con responsabilità e consapevolezza, ci sono riflessioni su temi come la morte, il karma, il valore e i benefici della virtù e della bontà; poi ci sono pratiche come quella di samatha-vipassana che facciamo qui, in cui si cerca di andare alla sostanza del corpo e della mente per farne esperienza diretta. Nella misura in cui tutte queste si sovrappongono e non si contraddicono si può dire di essere sulla strada giusta. Laddove invece se si coltivasse la consapevolezza del corpo ma questa fosse in contrasto con i valori della gentilezza e della virtù, o con la coscienza della propria mortalità, non sarebbe una pratica corretta. Quindi c’è sempre modo di non coinvolgersi a senso unico con una forma di pratica a scapito dell’equilibrio generale.

Il nostro obbiettivo è risanare e liberare la totalità dell’essere. In altri termini, è il benessere e la liberazione di citta. Citta è quell’esperienza immateriale che chiamo “me stesso”, ciò che riceve le impressioni corporee e sensoriali, come pure i pensieri, le emozioni e gli stati d’animo. Citta riceve un’impressione ed entra in risonanza. E’ così che conosciamo qualcosa, grazie a quella sorta di sottile fremito, di riverbero, che avviene quando veniamo toccati. Ed è così che possiamo sapere dove siamo, fisicamente o emotivamente, o in che rapporto ci troviamo con gli altri, grazie al fatto di venire influenzati. Senza di che, non vi è reale esperienza.

Un’altra funzione di citta è il sostenere: si riceve un’impressione e l’attenzione insiste su quell’impressione. Se non riveste particolare importanza ci sarà solo un riconoscimento momentaneo; altrimenti l’attenzione vi tornerà ripetutamente e con grande intensità o interesse. Di solito è così che succede: notiamo l’esistenza del pavimento, del soffitto, delle pareti, ma solo di sfuggita. L’impressione generale del nostro corpo e le sensazioni che proviamo ricevono un po’ più di attenzione, e fra queste ultime c’è forse una piccolissima porzione, un particolare tipo di  sensazioni, che ne riceve moltissima: per cui ad esempio non sono più semplicemente nella stanza o in un corpo, ma sono “in agonia”. L’attenzione si concentra su un solo elemento alla volta. L’attenzione non è un atto neutro, l’attenzione è partecipazione: ciò a cui facciamo attenzione diventa dominante e attorno a quel determinato oggetto tende ad accumularsi energia.

Ciò a cui si fa attenzione diventa la fonte di ulteriori oggetti di attenzione, conformi o collegati al primo. Ad esempio: a tutti sarà capitato durante un ritiro di avere un certo ricordo che resta nella mente per mezza giornata; avrete notato come si possono riempire ore e ore con giudizi, fantasie e riflessioni che ruotano tutti attorno a quel particolare piccolo ricordo.

L’altro aspetto di citta è quella facoltà che si definisce intenzione: qualcosa che punta in una certa direzione, che dirige o sceglie e che dà luogo a un naturale effetto di intensificazione per cui ciò che è intenso diventa il fulcro della propria attenzione. Quindi, a volte diamo attenzione a qualcosa  per via della forte impressione che suscita, perché ad esempio è doloroso o commovente. Altre volte invece è il fatto di essere orientati in un certo modo, intenti o particolarmente interessati a qualcosa a determinare il fulcro principale della nostra attenzione. Rispetto alle impressioni abbiamo un certo margine di scelta, ma non completa libertà.  Non possiamo fare a meno di provare le sensazioni corporee, il piacere e il dolore, gli stimoli provenienti da fonti esterne. Certo, possiamo decidere di non guardare la TV o di non andare alla partita di calcio, però a parte questo non possiamo fare granché. Quindi ciò su cui è possibile lavorare utilmente allo scopo di dare all’attenzione oggetti appropriati è l’intenzione: è qui che abbiamo il più ampio margine di scelta.  L’impressione è vipaka (lett. “frutto”, conseguenza), cioè qualcosa che è già successo o sta succedendo; l’intenzione è kamma, ossia ciò che si sceglie di fare. L’idea è che noi possiamo agire sul modo di ricevere l’impressione; quindi non sull’impressione stessa bensì sul nostro modo di gestirla, di affrontarla.

Gli insegnamenti buddhisti affermano che in questo mondo, con questo corpo, con questa coscienza e queste percezioni è possibile conoscere la libertà dalla sofferenza. E solo lavorando sull’intenzione. Ad esempio, si può coltivare deliberatamente l’intenzione di essere pazienti. Forse crediamo di sapere cosa significhi essere pazienti. Spesso abbiamo idee precise sulla pazienza (o sulla calma o sulla gentilezza). Ma la pratica del Dhamma ci dà occasione di esplorarla direttamente e accorgerci che in realtà ne avevamo solo un’idea superficiale, addomesticata, in qualche modo distorta. Praticando arriviamo a conoscerla nella sua forte e autentica pienezza.

Di solito per pazienza si intende la capacità di resistere per un certo periodo di tempo. Ad esempio, aspetto l’autobus da dieci minuti e decido che resto lì e continuo ad aspettare; o nel caso di un suono fastidioso o di una sensazione fisica fastidiosa penso: “Sopporterò”. Ma se coltivo davvero la pazienza sono disposto a lasciare arrivare fino in fondo alla mia presenza il suono o la sensazione. Spesso usiamo certe idee come uno schermo che si frappone fra il cuore, la sensibilità, e quella cosa lì che non mi piace per niente, per cui diciamo: “Va bene, ci resto ancora per dieci minuti”, ma fra il cuore e l’esperienza c’è una specie di scorza. Oppure: “Sopporterò per buona educazione…”.

Ma essere pazienti significa togliersi la scorza. Perciò, di fronte a una cosa irritante la prima reazione potrà essere: “Fatti coraggio, finirà”. Il tempo passa, la cosa è ancora lì, il coraggio comincia a vacillare: “Be’, proverò a restare calmo”; ma la provocazione continua e la calma entra in agitazione. “Proverò a essere consapevole!”, ma quella non demorde, continua a punzecchiare, finché a un certo punto…  irritazione, rabbia, dolore, furia, il fronte è rotto, le coperture cadono, la scorza  cede, resta la nuda esperienza. E la cosa è sempre là…

Allora, se la pazienza viene sostenuta fino in fondo, arriva il momento in cui quel dolore e quell’irritazione possono essere leniti, in cui semplicemente sei quello che c’è e non c’è più reazione, nessuna resistenza, nessun patteggiamento. A volte c’è come un fremito, un brivido attraversa il corpo, sentiamo che è cambiato qualcosa. E lo straordinario è che la difficoltà può esserci ancora, ma in un certo senso non è più difficile. E’ semplicemente quello che è, e anche ciò che io sento di essere è cambiato.  Non sono più il capitano sul ponte della nave che dà ordini a destra e a manca o il passeggero che cerca di gettarsi fuoribordo. Ma solo la nave: ecco, è solo questo. E’ c’è posto anche per questo.

Dunque il problema sta sempre nella contrapposizione: il senso dell’io viene sfidato dall’esperienza; ma quando la contrapposizione si scioglie il senso dell’io può trasformarsi radicalmente o apparire sotto una nuova luce. E’ così che il processo della sofferenza, se lo si attraversa fino in fondo, porta alla liberazione. Poi, naturalmente, se pensiamo: “Ah, ora so cosa fare, finalmente ho la tecnica giusta”, non funziona più. Perché il senso dell’io si è agglomerato, per così dire, attorno a quell’esperienza, esperienza il cui vero valore sta proprio nella libertà dal senso dell’io. Il senso dell’io non avrà mai la ricetta giusta. Mentre invece il processo del Dhamma è davvero prodigioso, davvero immenso, davvero illuminante.

Per renderlo possibile ci sono alcune cose da tenere presenti nella pratica. La prima è sostenere la propria aspirazione. Non sempre l’aspirazione si lascia definire con esattezza; forse non posso dire di aspirare a diventare questo o quello ma sento comunque di averne una. Perché se penso che la mia aspirazione è quella di essere più paziente o più gentile, ad esempio, è quasi certo che il senso dell’io – “voglio essere più paziente” – farà da ostacolo. Tenere presenti cose come la calma, la tolleranza e la gentilezza è un buon punto di partenza; ma bisogna rendersi conto che il processo attraverso cui ci si arriva è sperimentarsi come impazienti, rabbiosi, ostili e confusi. Bisogna passarci in mezzo, è il fuoco della purificazione. E accanto a questo, sapere che c’è altro, c’è la possibilità di qualcosa di meglio, e dargli fiducia. Avere fede.

In secondo luogo, tenere viva l’intenzione: “Mi applicherò: mi sento ispirato, disposto a fare, ho fiducia e inoltre faccio uno sforzo, investo la mia energia”. Senza una ferma e deliberata intenzione la pratica si limita a grattare la superficie senza mai andare a fondo. Quindi conservare quel senso di intenzionalità, anche se è probabile che strada facendo ci si ritrovi bloccati, incapaci di procedere, incerti sulla direzione da seguire, incerti su come applicare l’energia.

Ma si tiene viva l’intenzione malgrado tutto: l’inclinazione a essere presenti nel processo. Lo spazio della mente, lo spazio di citta, è il sacro crogiuolo: “Sarò presente con quello che c’è, me ne assumo la responsabilità”. Ciò nonostante, è probabile che l’esperienza effettiva sia desiderare ardentemente di non stare con quello che c’è: “Non dovrebbe andare così, è tutto sbagliato, non è giusto!”. Allora possiamo stare con il “Non dovrebbe”, con quel “Sbagliato!”, “Ingiusto!”. E’ qui che avviene il cambiamento, se si sostiene lo spazio, se si resta lì; il cambiamento avviene, non lo provochi tu. In quello spazio c’è solo spazio: patteggiamenti e resistenze vengono meno, si apre lo spazio della consapevolezza che rende possibile il cambiamento.

Personalmente, quando mi trovo alle prese con un disagio di tipo emotivo o fisico, o con la tensione di un rapporto difficile o di una situazione di vita, la prima cosa che penso è: “Com’è potuto succedere? Dove ho sbagliato?”. E poi: “La mia pratica non va… forse è una situazione negativa per la pratica…  c’è qualcosa che non vedo?… dovrei sforzarmi di più.. magari dovrei chiedere consiglio a qualcuno…”;  e via di questo passo ad agitarmi, resistere, pretendere che le cose siano diverse da come sono.  Anche questo fa parte del processo. L’energia saggia le direzioni possibili nella speranza di far cambiare le cose. Alla fine, quando le ha provate tutte, torna sui suoi passi e si raccoglie in se stessa, e c’è pura attenzione: “Ah, si tratta di questo!”.

A volte si prova un sollievo fisico, è  come se il corpo avesse conosciuto o riconosciuto qualcosa.  Oppure c’è un moto del cuore, che si può esprimere nel pianto o in altri modi. Ma il fatto fondamentale, a prescindere dalla modalità dell’esperienza, è che un pochino della durezza e della caparbietà dell’io si è ammorbidita. E allora: ma sì, c’era posto per questo! E’ solo quel piccolo io striminzito che non voleva saperne: “Non c’è posto qui! Via! Lasciami stare! C’è posto solo per cose giuste e ragionevoli!”. Imponiamo all’esperienza nozioni molto strane e astratte come “giusto”, “ragionevole”, “piacevole”, eccetera; è l’addomesticamento, per così dire, o socializzazione di citta. Il risultato è uno spettro estremamente ridotto di ciò che è in grado di accettare.

Quando percorrevo le strade dell’India a piedi in pellegrinaggio i limiti dell’accettabile venivano sfidati quotidianamente. Non era giusto, ragionevole, logico, sensato, civile o gestibile…  Diamo per scontato che se premi un pulsante sulla parete compare la luce, o che se apri un rubinetto esce fuori l’acqua. Crediamo che sia nella natura delle cose. Ma il rubinetto è solo un pezzo di metallo: l’acqua può uscire oppue no. In India si viene edotti circa la vera natura delle cose. La morte avviene per strada, non in ospedale o luoghi simili, ma sotto ai tuoi occhi. Certe funzioni fisiologiche non vengono espletate in pratici camerini dietro una porta chiusa, ma davanti a te. I suoni, gli odori… niente pareti, tutto è esposto, nudo e crudo. La mente scivola in una sorta di sgomento attonito. Mi ci è voluto un po’ prima di riuscire ad accogliere impressioni di questo tipo senza sussultare in continuazione. E il processo passa per la confusione, la rabbia, la frustrazione, l’irritazione, la disperazione e il dolore, sentire queste emozioni che montano a ondate nel cuore. E allora resti presente, presente con questo: è possibile stare con questo.

La terza cosa da ricordare nella pratica è notare i risultati, riflettere su quello che è successo. C’è stato uno sblocco, un cambiamento. Prima c’era il “Non voglio, non ce la faccio, non capisco, non è giusto”. Senza un contesto adeguato che ci sostiene finiremmo per credere a quella voce. E non cambieremmo mai veramente. Non cresceremmo mai. Ma dobbiamo affrontare qualcosa che non è chiaro. A me, ad esempio, sembrava di non riuscire a gestire la situazione, e quello che sentivo emergere dentro non era molto carino. A volte mi sembrava di perdere la testa completamente. Ma se resti presente con la totalità della situazione il cambiamento avviene. E il risultato è una pace che non è semplice tranquillità, è la pace della comprensione. Sei cresciuto, c’è posto per tutto questo. E l’aspirazione, l’intenzione e la capacità di sostenere lo spazio ne escono rafforzate.

Possono emergere tante cose dolorose, ma anche tante cose meravigliose. Forse, nell’attimo in cui interviene il cambiamento, la qualità che affiora è la compassione: “Ecco, solo di questo c’era bisogno…”. O un sentimento di serenità, per cui si vede chiaramente: “Le cose stanno così, per tutti”. Oppure la fede: “Il Buddha è vissuto qui, in un posto come questo”. E anche per una sola impronta lasciata dal Buddha vale la pena vivere.

Offro queste parole alla vostra riflessione.

 

Cuocere la zuppa: la pratica come processo

del venerabile Ajahn Sucitto

© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione e adattamento di Letizia Baglioni

Discorso tenuto nel corso di un ritiro a Bassano Romano (RM), aprile 2001.