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Quasi tutte le tradizioni buddhiste prevedono il prendere rifugio nel Buddha, nel dhamma e nel sangha. Questi tre elementi costituiscono un punto focale per il nostro impegno e per le nostre riflessioni sulla pratica.

Il primo rifugio: il Buddha

Il primo rifugio è il Buddha, spesso raffigurato da un’immagine su un tabernacolo. Qualcuno si chiederà perché i buddhisti possiedono immagini del Buddha. Sono idoli che adoriamo? Hanno una sorta di potere divino? Niente affatto; sono immagini su cui riflettere.

Quando contemplate un’immagine del Buddha, vi rendete conto che è l’immagine di un essere umano composto, vigile e sereno. Sta di fronte al mondo e osserva le cose. È consapevole del mondo, ma non se ne lascia ingannare né intrappolare. Non è estatico e neppure depresso. Rappresenta la capacità dell’essere umano di trovarsi in una calma assoluta e di vedere le cose per come sono davvero, e dà alla mente un’ispirazione di grande esperienza. Quando contemplate un’immagine del Buddha, provate un senso di calma. Perciò, vivere con le immagini del Buddha è una cosa piacevole; sono oggetti assai piacevoli da tenere con sé.

È ovvio che, se ci contorniamo di sculture che raffigurano forti passioni di rabbia e di estasi, o che attirano ed eccitano le passioni dentro di noi, diverremo passionali ed eccitati. Diventiamo quello che osserviamo. Ciò che ci circonda esercita un influsso sulla nostra mente. A mano a mano che intensificate la meditazione, scegliete di porre intorno a voi oggetti che portano alla tranquillità, non all’agitazione.

Nei monasteri, i monaci e le monache, per tradizione, fanno ogni mattina un’offerta di candele, incenso e fiori al tabernacolo del Buddha. Anche quelle offerte sono fatte per riflettere. I fiori sono alcuni tra i doni più leggiadri che si possano fare, perché sono tra i prodotti più belli della terra. I fiori freschi abbelliscono qualunque luogo in cui si trovano; non sminuiscono né danneggiano mai alcunché. Nel buddhismo sono un simbolo di purezza mentale. Di solito, le immagini del Buddha lo mostrano seduto su un fiore di loto. Nel sudest asiatico, il fiore di loto cresce nelle paludi e negli stagni, sbocciando tra il fango e la melma. Si innalza al di sopra di tutto ciò e diventa un fiore magnifico. Quel fiore è come un essere umano morale. Un essere umano responsabile di ciò che fa è sempre una creatura magnifica da avere vicino a sé. Ovunque vada è il benvenuto; abbellisce, adorna. Al contrario, il mondo è ingombro di esseri umani egoisti, immorali e noncuranti, simili a erbe infestanti. Ecco perché il Buddha è seduto simbolicamente su un trono di loto: la saggezza del Buddha può provenire solo dalla purezza morale.

Gli esseri umani possono raggiungere qualunque livello. Possiamo vivere, come fanno molti, a livello istintivo del corpo, seguendo gli impulsi animali al cibo, al sonno e alla procreazione. Possiamo anche abbassarci al di sotto di quel livello ed essere ossessionati da desideri di bassa natura. Molti esseri umani vivono in questo modo. Non sono veramente umani; sono come spettri che vivono in un mondo crepuscolare di appetiti ossessivi e desideri insaziabili, come tossicodipendenti e alcolizzati. Oppure possono essere demoni, con un’energia malvagia che cerca di distruggere e ferire gli altri. Il solo fatto di possedere un corpo umano non significa che siate pienamente umani. Non è così facile. Il regno umano è totalmente intriso di mortalità, perciò essere umani implica anche l’aspetto mentale.

Solo quando decidiamo di assumerci la responsabilità della nostra vita diventiamo esseri umani a tutti gli effetti. Dobbiamo compiere lo sforzo di elevarci. Essere responsabili richiede fatica; non è qualcosa che avviene senza sforzo. Dobbiamo sceglierlo. Dobbiamo decidere di essere in quel modo e assumerci l’impegno e la fatica necessari. Viceversa, ci limiteremo a seguire gli impulsi istintivi che spesso sono autoindulgenti e di basso livello. Quando compiamo lo sforzo necessario, ci innalziamo a un livello superiore. Ecco cosa rappresentano i fiori e il loto.

Quando prendiamo rifugio nel Buddha, stiamo prendendo rifugio in ciò che è saggio. La parola “Buddha” è in realtà un termine indicativo dell’umana saggezza; significa “colui che conosce la verità” o “quello che conosce”. Se dite di essere un buddhista, potete pensare di esservi convertiti a una religione, oppure potete pensare di essere qualcuno che sta prendendo rifugio nella saggezza. Per essere saggi, si riflette e si contemplano le cose. La saggezza c’è già. Non è qualcosa che si ottiene, ma qualcosa che viene usato. È sbagliato pensare che diventerete saggi meditando. La meditazione è un modo per imparare la saggezza che c’è già. Nella meditazione, contemplate e riflettete sul dhamma, o sulla verità del così com’è. Così facendo, state già usando la saggezza. La saggezza non è qualcosa che non possedete, ma qualcosa che forse non sempre usate, o di cui non siete sempre consapevoli.

Nei canti quotidiani nei monasteri, il Buddha è detto l’arahant, il sammāsambuddha. Sono termini pali che stanno per ciò che è veramente puro e illuminato. Sammāsambuddha significa colui che è illuminato perché conosce la sua vera natura. Arahant è una parola che sta per essere umano perfetto, essere umano che vede con chiarezza e non si lascia ingannare dalle apparenze e dai condizionamenti mentali.

Il Buddha è detto anche vijjācaraņasampanno, che significa perfetto nella conoscenza e nella condotta; non quindi sapere ciò che è giusto e comportarsi altrimenti. Di questi tempi, un gran numero di maestri agisce proprio in questo modo. Da una parte scrivono libri, insegnano e capiscono; le loro azioni, però, non si accordano alle loro conoscenze. Ma un Buddha è ciò che un Buddha conosce; vive in quel modo: vijjācaraņasampanno, perfetto nella conoscenza e nella condotta.

Un altro attributo del Buddha è lokavidū, che significa colui che vede il mondo, che conosce il mondo come è. Dov’è il mondo conosciuto dal Buddha? Quando contemplate la domanda: “Dov’è il mondo?”, scoprirete che la risposta è la vostra mente. Di solito, però, non pensiamo al mondo in quel modo; lo identifichiamo con il pianeta. Guardate una carta geografica e vedrete che la Svizzera è azzurra e l’Inghilterra è rosa. Pensate che l’Asia, l’Australia e l’America siano il mondo, qualcosa che conoscete perché guardate una carta geografica o perché avete studiato storia e geografia. Ma il mondo reale è la vostra mente, e voi conoscete il mondo perché conoscete la mente. Osservando la mente, riflettendo su di essa, conoscete il mondo così com’è, come si presenta alla coscienza: le paure, i desideri, i punti di vista e le opinioni, le percezioni che vanno e vengono nella mente. Questo è il significato di lokavidū.

Il Buddha è sārathi, che significa auriga, colui che sta al posto di guida. Significa che quando prendiamo rifugio nel Buddha, ci lasciamo guidare da ciò che è saggio, non da ciò che è stupido e ignorante. Ci rivolgiamo alla nostra saggezza di Buddha che ci addestra. Aprendoci alla saggezza, ci alleniamo a vivere con rettitudine. Impariamo a essere di utilità e a non rappresentare un fastidio o una maledizione per il mondo. Nei regni celesti, il Buddha è il maestro (satthā) di tutti gli dèi, ed è anche il maestro di tutti gli esseri umani. Ciò significa che il Buddha addestra tutte le creature virtuose a vedere le cose nel modo giusto, a conoscere la verità.

Il secondo rifugio: il dhamma

Il Buddha può essere personificato e potete fabbricare immagini umane del Buddha, ma il rifugio successivo, il dhamma, non possiede alcuna qualità personale. Il simbolo che si usa per il dhamma è generalmente quello della ruota (dhammacakka). Dhamma significa verità, la verità del così com’è. Perciò il dhamma comprende ogni cosa, esseri umani, animali, demoni, angeli, tutti gli dèi, tutte le cose che si possono concepire o percepire, e anche la verità immortale. Il dhamma comprende ogni cosa: il conoscere, la verità, le condizioni, tutte le esperienze sensoriali, il vuoto e tutte le forme. Tutto è dhamma.

La meditazione è un modo per aprirsi al dhamma. Vi aprite alla verità. Nei nostri canti dedicati al dhamma, diciamo che esso è “visibile qui e ora” (sandiţţhiko), “senza tempo” (akāliko), “promotore dell’investigazione (ehipassiko), “guida alla liberazione” (opanayiko), “ciò che va sperimentato personalmente” (paccatam) e “realizzabile dal saggio” (veditabbo viññūhi). Sono parole che mettono in luce il qui e ora. Quando vi aprite alla verità, non cercate qualcosa in particolare, non vi concentrate su un oggetto, né vi chiedete: “È questa la verità?”. Aprirsi alla verità significa aprire la mente, non concentrarsi su una cosa. Il prendere rifugio nel Buddha e nel dhamma ci riporta allo stato di attenzione vigile. Non cerchiamo di concentrarci su questo e sbarazzarci di quello; non ci facciamo intrappolare dall’abitudine alla condiscendenza e alla repressione. Quando ci apriamo, quando impariamo ad aprirci qui e ora, sperimentiamo la tranquillità, perché non stiamo cercando alcunché in particolare a cui attaccarci. Non corriamo più di qua e di là; stiamo interrompendo la nostra corsa frenetica. L’apertura al dhamma è la via che conduce alla tranquillità, e dobbiamo realizzarla di persona. Dobbiamo realizzare la verità per conto nostro; non aspettare che qualcun altro la realizzi per noi o ci dica cos’è.

Il Buddha e il dhamma non sono solo piccoli concetti graziosi su cui intonare canti; su di essi bisogna riflettere. Sono insegnamenti che esaminiamo e applichiamo alla nostra vera esperienza. Invece di pensare al Buddha come a un profeta morto duemilacinquecento anni fa, pensiamo che egli rappresenta la saggezza che esiste in ciascuno di noi e che ci colloca nel momento presente. Non è necessario andare a cercare il Buddha sull’Himalaya. Aprirsi al così com’è, ora, qui, in questo momento e in questo luogo, significa prendere rifugio nel Buddha e nel dhamma. Prendere rifugio non significa cercare qualcosa da qualche parte, ma aprirsi al così com’è, qui e ora. Prendere rifugio significa guardare le cose come sono realmente e non come desideriamo, romanticamente, che siano.

Il terzo rifugio: il sangha

Il sangha è la società, o la comunità dei virtuosi, di coloro che praticano, che usano la saggezza, che contemplano la verità. Quando prendete rifugio nel sangha, non vi rifugiate più nella personalità o nelle capacità individuali, ma in qualcosa di più vasto. Il sangha è di tutti e in esso la personalità non è più così importante. Che siate un uomo o una donna, che siate giovane o vecchio, colto o incolto, o qualsiasi altra cosa, nel sangha non ha più alcuna importanza. Il sangha è formato da chi pratica, da chi vive in modo retto, da chi contempla la verità e usa la saggezza.

Quando prendete rifugio nel sangha, siete disposti ad abbandonare le qualità personali, le esigenze e le aspettative che avete come individui. Abbandonate tutto ciò a beneficio del sangha, la comunità dei praticanti, avanzando verso la verità, realizzando la verità.

Rendere omaggio ai tre gioielli

Sono questi i tre rifugi, spesso designati come i tre gioielli. Sono gioielli inestimabili a cui rendiamo omaggio, e a cui, rendendo omaggio, ci apriamo. Il senso di devozione e di riguardo è un aspetto assai positivo dell’essere umano. Una persona che non prova rispetto per alcunché, che non prova né amore né gratitudine, è una persona la cui compagnia è assai sgradevole. Le persone che si lamentano, che criticano e che pretendono, le persone testarde e orgogliose, sono persone con cui non è piacevole stare. L’atteggiamento “Sono troppo in gamba, non mi inchinerò davanti a nessuno” è pura arroganza ed è un aspetto disdicevole degli uomini.

La pratica della devozione consiste nell’aprirsi, nel fare offerta di noi stessi inchinandoci. E’ un movimento del corpo nel quale realmente offriamo alla verità noi stessi, questo corpo, questa forma umana. Abbassiamo il corpo a terra, mettendo ai piedi del Buddha ciò con cui ci identifichiamo, offrendoci alla verità.

Questo è il modo in cui interpretiamo la tradizione. Se volete, potete farne lo stesso uso. Se vi sembra un mucchio di roba inutile, non ve ne curate. Non siete costretti a farlo, potete servirvene o non servirvene. Dipende da voi. Imparare a usare quelle tradizioni richiede un certo sforzo, e farne un buon uso abbellisce la nostra vita. Ci dà grazia, stile e il senso della comunità come sangha. Diventiamo una cosa sola, non siamo più un gruppo di esseri singoli che fanno ciò che sentono o vogliono. Impariamo ad agire in conformità, in un atto di devozione, amore, gratitudine e rispetto.

Aprirsi alle convenzioni religiose

A volte, le persone appartenenti ad altre religioni si sentono a disagio con i simboli buddhisti. Non è necessariamente questione di orgoglio o di caparbietà, quanto di scarsa dimestichezza. In certi casi, le persone hanno la sensazione, usando i simboli buddhisti, di tradire i propri, probabilmente cristiani. Spero che il modo in cui ho presentato i tre rifugi sia un modo di guardare a ogni tradizione religiosa. Grazie a una comprensione siffatta, sappiamo come usare la tradizione buddhista o cristiana. Io vedo l’unità, l’integrità di tutto ciò. Non considero il buddhismo, come forma esteriore, l’unica via. Penso che ciò di cui si occupa, o dovrebbe occuparsi, la religione, è la verità o l’apertura nei confronti della verità. Tutto si confonde perché la gente se ne dimentica e rimane invischiata nella tradizione come se fosse fine a se stessa. Invece di usare la tradizione e le cerimonie per aprirsi, le utilizzano per aggrapparvisi.

Quando iniziate ad attaccarvi al buddhismo, non siete più aperti. Diventate buddhisti settari. Nel buddhismo ci sono diverse scuole, perciò potete diventare un buddhista mahāyāna, in contrapposizione a un buddhista hīnayāna, oppure un buddhista vajrayāna, o un buddhista Zen. C’è un’infinità di varianti nel buddhismo. In Gran Bretagna abbiamo di tutto: cristiani buddhisti, buddhisti cristiani, ebrei buddhisti, buddhisti ebrei, moderni buddhisti scientifici, buddhisti britannici, e così via. Poi, ci sono buddhisti che non sono buddhisti perché hanno rifiutato il Buddha e il sangha e accettano solo il dhamma: sono i dhammaisti.

L’attaccamento nutre tali separazioni; è divisivo. Qualsiasi cosa a cui vi attaccate diventa una setta o un culto. La tendenza settaria è uno dei grandi problemi dell’umanità, che sia religiosa, politica o d’altra natura. Quando la gente dice: “Il mio percorso è quello giusto e gli altri sono sbagliati”, oppure “Il mio è il migliore, gli altri sono inferiori”, quello è attaccamento. Anche se avete il meglio, l’attaccamento al meglio vi rende una persona ignorante, non illuminata. Potete avere il meglio di tutto e continuare a non essere illuminati.

Non intendo dare l’impressione che il buddhismo theravada sia la via migliore o l’unica via. Perché “migliore” e “unica” sono qualità a cui attaccarsi. Il buddhismo theravada è una convenzione, qualcosa a cui aprirsi, contemplare, imparare a utilizzare. Che vi piaccia o no, che vi offenda, vi irriti, ne siate entusiasti o indifferenti, prendete nota della condizione della mente, invece di prendere posizione a favore o contro. Allora potete pensarci su. Vi offre qualcosa da osservare in voi stessi. E vi offre l’opportunità di rivolgere l’attenzione alla verità.

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Domanda: Questo prendere rifugio nel Buddha-dhamma-sangha ha un aspetto marcatamente devozionale; però, da quanto ho letto, mi sembra che il buddhismo sia molto intellettuale, filosofico. Quanto è importante la devozione nella pratica, e che forma gli attribuite se, di fatto, non adorate e non credete in niente?

Risposta: Penso che per la maggior parte di noi la devozione derivi dalla pratica del dhamma, nella quale si rimuovono le illusioni della mente e si nutre più fiducia nel Buddha-dhamma-sangha. Non c’è bisogno di convincersi che esista qualcosa come il Buddha-dhamma-sangha per confidare in esso; non è un’invenzione idealistica. Quanto più vi spogliate dell’illusione, quanta più fiducia avrete in ciò che chiamiamo, per convenzione, Buddha-dhamma-sangha. Senza quella fiducia, non importa quanto meditate o quanto riflettete sulle cose; se non avete gettato le basi nei tre rifugi, il dhamma diventa una sorta di ideale da raggiungere in futuro, o un metodo di liberazione psicologica da applicarsi a situazioni diverse. In entrambi i casi, non è trascendente; non realizzate la realtà immortale trascendente. Se continuate a lavorare a livello dell’io, come persona, cercando di liberarvi dall’illusione, dalla paura o dal desiderio, potrete ricevere un aiuto per cavarvela nel mondo reale, nella società, ma non è una via trascendente. Per percorrerla, dovete nutrire una fede e una fiducia complete e totali nel Buddha-dhamma-sangha. I rifugi non esistono per meriti propri. Sono stimoli per la mente che aiutano a comprendere la vera natura del Buddha-dhamma-sangha. Contemplandoli, rinuncerete a tutti i presupposti che provengono dalla visione egoica.

D.: Avete consigli da dare, per esempio cantare o avere un tabernacolo, per alimentare la fede e renderla concreta.

R.: Sì. Vi suggerisco di usare qualunque forma d’arte, simbolo, convenzione o tradizione che sia, secondo voi, di aiuto. Ricordate che in una società in cui il Buddha, il dhamma e il sangha non significano nulla e in cui sono molteplici le opinioni contrarie alla tradizione e alla devozione, quest’ultima è considerata una sorta di ingenua credenza. Perciò abbiamo veramente bisogno di scegliere i simboli nella nostra religione e valorizzarli, per saggezza, non per superstizione. Nel caso del Buddha, del dhamma e del sangha, noi non usiamo i simboli in modo superstizioso, ma con saggezza; per commemorazione, ricordo, attenzione. Se coltivate la devozione al Buddha, al dhamma e al sangha nel qui e nell’adesso, li state usando. Così essi diventano strumenti di attenzione, e non simboli di un credo.

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. 

Dal libro “La mente e la via”

Traduzione di Elizabetta Valdrè

Estratto del libro “La mente e la via”, su gentile concessione dell’Editore Ubaldini.