Se si pensa al valore che il Buddhismo attribuisce alla consapevolezza e alla saggezza, si può avere l’impressione che la vita spirituale sia un tentativo di guardare tutto con occhi spietatamente obiettivi. Anziché sentire le cose, ci si chiede di vedere tutto come anicca, dukkha e anattā (impermanente, insoddisfacente e impersonale). Questo è ciò che può sembrare. Ma ricordate, l’esperienza della vita attraverso il cuore è un’esperienza d’amore: per cui l’amore e la devozione non vengono mai messi da parte.

Se contempliamo l’esperienza dell’amore come semplice anicca, dukkha e anattā, l’impressione è di una certa freddezza. L’oggettività tuttavia è semplicemente il modo di vedere le cose in prospettiva, per evitare che l’amore sia qualcosa che acceca. Se siamo attaccati all’idea dell’amore possiamo essere totalmente ciechi alla sua realtà. Possiamo essere molto esaltati dal parlare dell’amore o dal meditarvi su, cercandolo o pretendendolo dagli altri, o sentendocene in qualche modo lasciati fuori. Ma cos’è l’amore, considerato dal punto di vista della nostra esistenza?

Sul piano emotivo, si può voler avere un senso di particolare unità, o magari dirigere i propri sentimenti su una specifica persona col desiderio di stabilire un rapporto d amore particolarmente intenso. L’amore può anche essere astratto, amore per l’umanità, amore per tutti gli esseri senzienti, amore per Dio, amore per un’idea o un ideale.

La devozione viene dal cuore, non dalla ragione. Non potete indurvi a provare amore o devozione solo perché vi piace l’idea. È quando non siete attaccati, quando il vostro cuore è aperto, libero e ricettivo, che voi cominciate a sperimentare cos’è il puro amore. La gentilezza amorevole, la compassione, la gioia compartecipe, l’equanimità (il regno dei quattro stati mentali divini, le dimore divine, i brahma-vihāra) vengono da una mente vuota. Non da una sterile posizione di semplice annullamento ma da un cuore che non è illuso, non è accecato dalle idee di sé o degli altri, né da passioni quali che siano.

Potete pensare che la vita spirituale sia fredda e priva di cuore perché in una comunità di samana come questa, in cui si pratica la via del controllo e della disciplina, non usiamo aperte manifestazioni di amore e di gioia. Questa comunità non ribolle di slanci di devozione. È estremamente formale e controllata nel modo di presentarsi e di esprimersi. Ma non è necessariamente una negazione dell’amore. Con la consapevolezza, col modo in cui ci rapportiamo ai nostri corpi, al Sangha, alla popolazione laica, alla tradizione e alla società nel suo insieme, c’è apertura, gentilezza amorevole e ricettività. C’è affetto reciproco, una gioiosità e una compassione tangibili.

È sempre anicca e anattā, ed è dukkha, nel senso che in sé non è il fine di nulla. Niente è soddisfacente a livello di identità e di attaccamento. Ma quando il cuore è libero dall’illusione del sé, nasce, nella pura gioia dell’essere, la qualità dell’amore. Non ci si aspetta che sia qualcosa o qualcuno, né ci si aspetta che duri o che sia stabilmente presente. Né è una cosa di cui ci si può fare un’idea. È solo il naturale modo d’essere delle cose. Per cui, quando contemplate in tale maniera, state praticando la via della fede, della fiducia e della devozione.

Quando parliamo di fede, fiducia, confidenza, non parliamo di cose che si possono afferrare concretamente. La fede non è qualcosa che si può creare. Si possono pronunciare le parole, ma avere veramente fede e fiducia nel Dhamma significa essere pronti a lasciar andare qualsiasi affermazione o pretesa o attaccamento, quale che sia. A quest’esperienza della fede arriviamo solo quando esaminiamo e comprendiamo il Dhamma o il vero modo d’essere delle cose. Se noi veramente contempliamo e vediamo il Dhamma, in quel momento c’è fede, c’è questo forte senso di totale affidamento e fiducia nella verità.

Se state praticando la meditazione vipassanā e vi sentite sempre più spaventati, ansiosi o tesi, o provate un senso di aridità emotiva, non state praticando nel modo giusto. È probabile che stiate usando la tecnica come un modo per reprimere le vostre sensazioni o negare le cose. Così finite col sentirvi più tesi, scettici, incerti. C’è attaccamento a una qualche idea al riguardo. Quanto più noi vediamo realmente e comprendiamo in pieno il modo in cui stanno le cose, tanto più possediamo la qualità della fede. La fede aumenta, diventa una fiducia totale. Quando si parla di arrendersi, di rinunciare, di lasciar andare, ciò significa fiducia totale. Non è un semplice cogliere un’occasione o affrontare un rischio, è qualcosa che passa attraverso l’esperienza della fede.

Il sentiero è qualcosa che si coltiva. Occorre sapere dove siamo e non cercare di diventare qualcosa che pensiamo ci piacerebbe essere; dobbiamo praticare con la realtà qual è ora, senza darne un giudizio. Se vi sentite tesi, nervosi, disorientati, delusi rispetto a voi stessi, o alla tradizione, o al maestro, o ai monaci o alle monache, o a quello che sia, cercate di riconoscere che ciò che è in questo momento è sufficiente. Siate pronti ad ammettere semplicemente, a riconoscere la situazione di fatto, anziché indulgere a credere che ciò che sentite sia comunque un’accurata descrizione della realtà, o che sia sbagliato e che non dobbiate sentirlo a quel modo. Questi sono i due estremi. Ma coltivare la via vuol dire riconoscere che tutto ciò che è soggetto a nascere è soggetto a morire. E non è un modo deprimente o freddo di coltivare il sentiero, anche se così potrebbe sembrare.

Potreste pensare che dovete soltanto lasciar andare tutte le vostre sensazioni per vedere che l’amore nel vostro cuore è anicca, dukkha, anattā. Provate amore per il Buddha e pensate: “Oh, è solo anicca, dukkha, anattā. Non è altro!”. Provate amore per il maestro e pensate: “È solo anicca, dukkha, anattā. Non attaccarti al maestro!”. Provate amore per la tradizione: “È anicca, dukkha, anattā, non attaccarti alle tradizioni né alle tecniche”.

Non attaccarsi a nulla può essere semplicemente un modo di reprimere tutto. Non è necessariamente lasciar andare o non attaccamento, può essere semplicemente assumere una posizione. E se assumete una posizione e agite in base a quella, tutto ciò che siete destinati a provare è negatività e stress. “Non dovreste attaccarvi a nulla, non dovreste provare nulla; provare una cosa qualsiasi è solamente anicca, dukkha, anattā”. Tutto ciò vuol dire prendere esclusivamente le parole e usarle come un randello, un pesante bastone sulla propria testa. Non vuol dire riflettere, aprirsi, avere fede.

La pratica di mettā è una bella pratica devozionale, altamente raccomandata nel Buddha-Dhamma. È la gentilezza amorevole. In quanto esseri umani, noi siamo creature dal sangue caldo; proviamo amore. Fa parte della nostra umanità. Proviamo simpatia l’uno per l’altro; amiamo stare con la gente; amiamo essere gentili; traiamo piacere dal cucinare il cibo e offrirlo agli altri. Proviamo gioia nel renderci utili. Potete vederlo nell’usanza della dāna delle comunità asiatiche. Quando i gruppi dello Sri Lanka vengono qui coi loro piatti e il curry, hanno gli occhi luminosi. È la gioia del dare.

Ora, è un’ottima qualità. È bello vedere qualcuno che magari è ‘ stato su tutta la notte a preparare deliziosi cibi da offrire a qualcun altro (non cucinano per se stessi). Bene, che cos’è questo come esperienza umana? È qualcosa di impuro, o è essere attaccati al piacere e alla felicità del far le cose per gli altri? Questo è l’aspetto più bello dell’umanità, il semplice saper amare, donare, condividere, essere generosi.

Provate a contemplare quale sarebbe il piacere più grande se si fosse la persona più ricca del mondo. Cos’è che in quella condizione potrebbe dare la massima gioia? Prendere tutto quello che si vuole? No: avere l’opportunità di regalare tutto, siete d’accordo? Quella sarebbe la massima gioia della ricchezza e del benessere: poterlo dare via come dāna, in dono; mentre essere ricchi e non riuscire a dare sarebbe un vero peso. Che fardello sarebbe essere la persona più ricca del mondo ed essere egoista e tenersi tutto stretto, tutto per sé. La gioia della ricchezza è nella capacità di condividerla e donarla senza nessun secondo fine o pretesa egoistica.

Per cui, c’è questo di bello nella nostra umanità: possiamo sperimentare la gioia del dare. Ed è qualcosa che sperimentiamo tutti quando realmente diamo qualcosa, quando aiutiamo qualcuno senza alcuna richiesta egoistica o pretesa d’essere ricambiati. A quel punto proviamo gioia. Essa è sicuramente una bella esperienza umana… però non ci attendiamo che ci renda felici per tutto il resto della vita.

La gioia della gentilezza e della generosità non e permanente, non ci fa permanentemente felici; né ci aspettiamo che ciò accada. Se così fosse, non sarebbe più dāna, sarebbe aver fatto un contratto. Non sarebbe un atto di generosità, ma un acquisto.

La vera gioia viene dal dare e non curarsi se qualcuno lo riconosce o addirittura lo sa. Non appena si fa avanti il sé (ad esempio: “Ti dono questo dāna ed è molto importante che tu sappia chi te lo sta donando: io, sono io che te lo dono”) ecco che la gioia che viene dal dare si riduce di molto. Se io mi preoccupo tanto che tu riconosca e apprezzi la mia generosità e la mia bontà, non posso provare uno stato d’animo gioioso. Non si può essere felici ne provare autentica gioia di vivere se c’è attaccamento all’idea che le proprie azioni debbano essere riconosciute. Non c’è niente di male nel fatto che la gente apprezzi la bontà e la generosità di qualcun altro, ma quando non lo pretendiamo. È allora che c’è la gioia.

L’amore romantico è generalmente basato sull’illusione di un sé e sulla richiesta di qualcosa in cambio. L’amore spirituale, da parte sua, è amore altruistico o amore universale ed è rappresentato dai brahma-vihāra (mettā, karunā, muditā, upekkhā). Un tale amore è un’esperienza di unione. Connette, unisce. È una comunione. L’odio è l’esperienza della separazione. Quando odiamo non c’è alcuna unione, comunione o unità. L’odio separa, divide, discrimina. L’amore unisce, e noi desideriamo l’unità, poiché vivere in un mondo d’odio, discriminazione e separazione è una condizione ben triste.

La comunità è una comunione, un Sangha, un tutto. Se siamo interiormente divisi dal Sangha, se odiamo il Sangha (“Odio quella monaca, odio quel monaco; e non mi piace Tizio, non mi piace Caio”) ecco che non è più comunità, è dis-unità. La sensazione è quella dell’alienazione, della separazione, dell’accentuazione dell’io e del tu, delle tue colpe e dei miei sentimenti, e della mia rabbia per le tue colpe. Può anche essere il mio far notare le cose che in te sono sbagliate; le cose che non vanno nelle monache, le cose che non vanno nei monaci, le cose che non vanno negli anagarika, le cose che non vanno e basta. Attaccarmi a queste percezioni mi farà sentire alienato, separato, irritato, scontento e depresso.

Talvolta la mente entra in uno stato molto negativo in cui ogni cosa infastidisce. Qualunque cosa le persone facciano non sembra abbastanza ben fatta. Quando siete in quello stato d’animo, niente sembra che vada bene, che siano i gatti, il sole o la luna: la mente è in una condizione di divisione, di separazione e negatività. Vi sentite separati da tutto ciò che vedete, e nessuna comunione o unione è possibile fintanto che voi vi attaccate e vi identificate con quell’atteggiamento mentale. Quando siete in uno stato d’animo amichevole non ha veramente importanza che uno non sia particolarmente buono o non faccia esattamente quel che dovrebbe. Certo, ci sono sempre delle cosette, degli aspetti, dei particolari che non vanno come dovrebbero, ma quando siete in una disposizione affettuosa, non è poi così importante.

Per cui l’esperienza dell’amore viene perché siete pronto a superare le differenze di personalità e le divisioni che esistono nel regno condizionato, in favore di un senso di comunione, di unione, di unità. Ci sentiamo uniti come fratelli e sorelle in una comune esperienza di vecchiaia, malattia e morte anziché tendere a rilevare le differenze o a notare chi è meglio di chi.

Nel momento in cui prendiamo rifugio nel Sangha, stiamo prendendo rifugio fra coloro che hanno praticato rettamente (supatipanno), fra coloro che hanno praticato in maniera diretta (ujupatipanno), coloro che hanno praticato con profondità di visione (ñāyapatipanno), coloro che hanno praticato con integrità (sāmīcipatipanno). Anziché prender rifugio negli americani, negli inglesi, negli australiani, o negli uomini o nelle donne, o nelle monache o nei monaci, prendiamo rifugio in coloro che praticano il Dhamma, nei buoni, i semplici, i sinceri.

Noi abbiamo la tendenza tanto all’unione quanto alla separazione, e siamo lucidamente consapevoli di entrambe. Occorre riconoscere come Dhamma il modo in cui stanno le cose. C’è l’unirsi e c’è il separarsi, e con la chiara consapevolezza non ci identifichiamo né con l’uno né con l’altro estremo. C’è il tempo per l’unione e la comunione, il tempo per la non discriminazione, per la devozione, per la gratitudine, per la gioia.

Ma c’è anche il tempo per la separazione e la discriminazione, per esaminare ciò che è sbagliato. C’è la necessità di osservare i difetti, esaminare la rabbia, la gelosia, la paura, e di accettare e comprendere tali esperienze emotive, anziché giudicarle e considerarle come sé e come qualcosa che non si dovrebbe avere. È la natura dell’essere umano: nasciamo in una forma separata e tuttavia possiamo integrarci. Possiamo realizzare l’unità, la comunione, l’integrazione; ma possiamo anche discriminare.

Perciò il rifugio nel Buddha è la capacità dell’essere umano di riconoscere entrambe le cose e di rispondere appropriatamente. Possiamo contemplare i difetti e i problemi della vita come parte della nostra esperienza umana, anziché in modo personale. Non stiamo più facendo formazioni, non stiamo magnificando o esaltando, ossessionati da ciò che è sbagliato, in quest’ottica di unità e separazione. Questo è il modo in cui stanno le cose, il Dhamma.

Il monaco e la monaca buddhiste sono una negazione dell’amore? La disciplina del vinaya è solo un mezzo per annullare i sentimenti? Può essere. Possiamo usare la disciplina del vinaya e la tradizione monastica semplicemente come un mezzo per evitare le cose. Può darsi che i monaci abbiano semplicemente paura delle donne… Può darsi che le monache siano semplicemente pietrificate dagli uomini, e che si siano fatte monache per non dover affrontare i propri terrori e le proprie ansie rispetto al rapporto con gli uomini… E naturalmente molti laici la pensano così. Pensano che tutti noi siamo qui per un’incapacità a confrontarci col mondo reale.

Ma è veramente così la situazione? Se lo è, se è per questo motivo che siete un monaco o una monaca, vuol dire che lo siete per le ragioni sbagliate. L’essere monaci non è un mezzo per evitare la vita e la realtà, ma un mezzo per riflettere su di esse. Poiché, nel controllo e nella dignità del controllo, la via del monachesimo è un’espressione d’amore per tutti gli esseri: uomini e donne, tanto quelli che vivono dentro che quelli che vivono fuori. Ora non scegliamo più un’unica persona su cui concentrare la nostra attenzione e cui dedicarci, ma dedichiamo noi stessi a tutti gli esseri.

Mi rendo conto che se fossi un padre di famiglia, tutta la mia attenzione sarebbe rivolta a mia moglie, ai miei figli e agli altri familiari più prossimi. Questo è il risultato del matrimonio e il senso della famiglia. Essi hanno la priorità. I rapporti devono tenere conto delle persone di cui col matrimonio si è diventati responsabili.

Si può sopravvivere di elemosine, vivere contando solo sulla fede e sulla fiducia nella benevolenza che la gente ha nei nostri confronti, per il fatto che nutriamo amore e rispetto per tutti gli esseri. L’amore e il rispetto per tutti gli esseri sono all’origine delle elemosine che ci sostengono nella nostra vita di mendicanti.

E la cosa divertente è che il potere del Sangha buddhista è così forte che anche se personalmente odi tutti gli esseri, le offerte continuano ad arrivare! Il potere della veste sembra talmente forte che, anche se come singolo monaco o monaca odiate qualcuno, continuerete a essere nutriti da esseri amorevoli. Questo a motivo delle pāramitā del Buddha. Ciò non vuol dire che uno debba sviluppare l’odio o giustificarlo in qualsiasi maniera. Piuttosto è una riflessione sul potere di una tradizione molto saggia fondata dal Buddha. Quando l’apprezzerete, proverete realmente amore e fiducia.

Perché questi monasteri operano qui, in Inghilterra? Perché dovrebbero operare in un paese non buddhista? Perché chiunque dovrebbe spedire un assegno postale, o portare un sacco di patate o preparare un pasto? Perché dovrebbero prendersi questo disturbo? Il motivo sono le pāramitā del Buddha. La bontà dello stile di vita da lui fondato produce generosità. La gentilezza amorevole, la compassione e la gioia della vita spirituale si diffondono e aprono gli altri alla stessa esperienza.

È un mistero. Partendo dall’atteggiamento pratico e mondano di giustificare la propria esistenza agli occhi della società, noi non diamo l’impressione di fare poi tanto per chiunque sia. Molte persone pensano che noi stiamo solo seduti e cerchiamo di raggiungere l’illuminazione per conto nostro, di avere stati mentali gradevoli e godibili perché non riusciamo a sopportare il mondo reale. Ma quanto più riflettete su questa vita e la comprendete, tanto più vi rendete conto del potere della bontà, della fede, delle pāramitā del Buddha, che permettono che abbia luogo una comunione in un contesto di bontà.

E ciò non ha bisogno d’esser dimostrato, commentato e sottolineato troppo. Parla da sé. Non dobbiamo uscire a dire alla gente: “Dovresti darci l’elemosina poiché stiamo praticando il Dhamma e siamo discepoli del Buddha”. Le nostre necessità sono soddisfatte generosamente poiché la gente apprezza e rispetta la vita spirituale. Essa porta gioia e felicità nella vita della gente, poiché noi gioiamo della bellezza degli altri e della bontà e della benevolenza della nostra esperienza di vita.

In realtà la vita spirituale è una vita strana, una strana maniera di vivere. Come esattamente funzioni in termini di quella che, in base al nostro condizionamento culturale, noi consideriamo realtà, è un mistero. Ma come Dhamma, come verità, come modo in cui stanno le cose, effettivamente funziona. E ciò aumenta la nostra fede e la nostra fiducia nei rifugi e nella bellezza e nella bontà della nostra vita di samana.

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Luang Por Sumedho è nato a Seattle, Washington. Nel 1966 si è recato in Thailandia per praticare la meditazione e non molto tempo dopo ha preso l’ordinazione come monaco. Si è messo al seguito di Luang Por Chah e vi è rimasto per dieci anni. Nel 1977 ha accompagnato Luang Por Chah in Inghilterra ed ha aiutato alla creazione del Monastero di Chithurst e poi di Amaravati, dove è attualmente residente.

Source : http://santacittarama.altervista.org/

 

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Traduzione di Silvana Ziviana.