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La mente condiziona il mondo

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Federico Petrangeli
Tratto da “Forest Sangha Newsletter”, luglio 1988, n. 5.

Quando cerchiamo di capire come vivere la nostra vita, dovremmo anche considerare che il modo in cui viviamo in un certo luogo produce un effetto sulla nostra mente. E’ così anche per la stanza di un monaco: se la consideriamo solo come un posto dove dormire, allora è soltanto quello. Ma se invece la abitiamo come luogo di consapevolezza, allora costruiamo qualcosa che sostiene e incoraggia la nostra pratica.

Cosi iniziamo a vedere che il modo in cui pensiamo, e le cose che facciamo, influenzano lo spazio intorno a noi, sia nel bene che nel male. Sarebbe una prospettiva limitata pensare che siamo delle creature isolate, che non hanno relazioni di interdipendenza, che non sono condizionate o influenzate da niente, che a loro volta non condizionano o influenzano niente. Questa sarebbe una visione totalmente alienante. Possiamo invece vedere come le società in cui vivono maestri spirituali o persone di grande santità hanno una qualità che manca in paesi in cui non vi sia incoraggiamento o interesse nei confronti della vita spirituale. Molti di voi sono stati in India, e hanno potuto vedere che, nonostante l’enorme povertà e il gran numero di spettacoli tristi che si trovano davanti agli occhi, una cosa che impressiona sempre è come laggiù la vita spirituale sia tenuta in grande considerazione. Per questo l’India ha una sua particolare qualità. Nonostante la grande povertà e la corruzione, io personalmente preferirei vivere in India, piuttosto che in un paese dove le religioni fossero vietate, anche se fosse un paese ben organizzato, pulito ed efficiente. Io penso che ciò che si apprezza veramente è ciò che eleva la spirito, ciò che favorisce l’inclinazione verso il campo spirituale. Così, elevandosi oltre la dimensione istintuale della pura sopravvivenza, si può trovare un forte anelito verso una dimensione superiore. Così possiamo raggiungere la luce, o il sole, simboli dell’illuminazione, e uscire dall’oscurità informe, dal terrore senza nome, elevarci dall’inferno al paradiso, aspirando a superare il male e a dirigersi verso il bene. Così decidiamo di sviluppare una vita virtuosa. Così eleviamo lo spirito.

Nell’Ovada Patimokkha il Buddha dice “Fà il bene, astieniti dal fare il male, purifica la mente”. Fare il bene è la prima cosa, non è forse ciò che eleva? Nelle nostre vite, c’è la parte attiva: la retta parola, la retta azione e il retto modo di vita. Perfezionare questi tre aspetti, la parte etica del cammino, consente sempre un’elevazione spirituale. Non si cade in basso verso il bene, ci si innalza verso il bene. Dall’altro lato c’è invece l’inerzia, il non voler essere disturbati, lo scetticismo, il cinismo, la pigrizia, il dubbio e la disperazione, e tutto questo ci spinge verso il basso. E la via d’uscita non è rifiutare questi sentimenti, che spingono verso il basso, o semplicemente lottare contro di essi, ma piuttosto comprendere il processo che consente di elevarsi spiritualmente.

Ora, se contemplate l’immagine del Buddha che è nel monastero, vedrete che essa è effettivamente un simbolo dell’elevazione. E’ l’immagine di un essere umano che ha una posizione eretta, che tiene gli occhi aperti. I suoi occhi sono aperti ma non stanno fissando niente in particolare, non cercano niente, non stanno cercando qualcosa da guardare, però sono aperti. Così da usare l’energia che può essere generata nel corpo per tirarlo su, in una postura corretta. In Thailandia per dire “impazzire” si dice “pensare troppo”. E quando guardate a simboli dell’uomo moderno come “Il Pensatore” di Rodin, che siede con la testa tra le mani, con uno sguardo profondamente depresso, vedrete che quell’uomo sta pensando troppo.

Quando pensiamo troppo possiamo impazzire, possiamo deprimerci, oppure possiamo finire in un vortice senza controllo di pensieri, che ci butta giù. Possiamo anche sentirci euforici per un po’, ma finisce sempre che veniamo spinti in basso, perché questa è la vera natura del pensiero: se pensi troppo non puoi più fare niente, se vuoi fare davvero una cosa devi smettere di pensarci. “Dovrei lavare i piatti? O piuttosto non dovrei? Mi piace farlo? Sono veramente io a lavare i piatti? Sono solo gli uomini che dovrebbero lavare i piatti, oppure sono soltanto le donne, oppure dovrebbero essere sia gli uomini che le donne?”. E tutto mentre si rimane seduti… Mentre se ci prendiamo il compito, e cambiamo prospettiva, possiamo vedere la stessa cosa in un modo ben diverso: “Che onore poter lavare i piatti! Mi stanno facendo un grande onore chiedendomi di lavare i piatti!” Immergere le mani nell’acqua insaponata, avere le dita a contatto con porcellana fine: sono tutte sensazioni piacevoli, non è vero? Così se iniziamo a guardare al lato positivo, non ci deprimiamo di dover lavare i piatti o di dover passare la vita con le stesse vecchie e noiose reazioni, magari perché nostra madre ci costringeva a lavare i piatti. Sono queste cose che ci rimangono attaccate addosso, proprio queste piccole cose. Lo si può vedere anche con gli uomini, nel modo in cui reagiscono alle donne: “Nessuna donna deve dirmi cosa fare! Nessuna donna mi può comandare!”. E’ questo il tipo di reazioni maschili che si sviluppa nel ribellarsi alla propria madre. E le donne nei confronti degli uomini, non è forse la stessa cosa? Ribellandosi contro il proprio padre: “sciovinismo maschile, cercano solo di dominarci e di tiranneggiarci, grrr!” Tutto questo perché qualche volta le donne non riescono a superare la fase di ribellione nei confronti del padre. A volte ci portiamo dietro queste cose per tutta la vita, senza mai accorgerci di quello che facciamo. Nelle nostre riflessioni sul Dhamma cominciamo a liberare la nostra mente da queste reazioni, inadeguate e immature, nei confronti della vita. Troviamo in questo “risvegliarci” alla vita un senso di maturità, un desiderio di partecipare ad essa, di rispettare le persone che sono in una posizione di autorità, piuttosto che ribellarci o resistere a causa delle nostre abitudini immature. Quando siamo maturi, allora comprendiamo il Dhamma, possiamo vivere nel mondo in armonia, in un modo che sia di beneficio e di servizio per la società in cui viviamo.

Mi ricordo il mio primo anno di permanenza al Wat Pah Pong, a Ubon Ratchathani, in Thailandia, con Ajahn Chah. All’inizio il monastero mi piaceva, ma poi diventai molto più critico. Continuavo a resistere. Continuavo a tenere gli occhi aperti per vedere se fosse veramente un bel posto. Così quando la gente cercava di convincermi di come fosse un monastero meraviglioso, io rimanevo molto scettico. Molti spesso mi chiedevano: “Non ami Luong Por?”, e io pensavo “No, in effetti non provo nulla”. L’idea di provare dei sentimenti per Luong Por, in quel periodo, non mi sfiorava nemmeno. E tutti insistevano su come fosse davvero un monastero molto buono, e quando provavano a dirmi quanto una certa cosa fosse buona, la mia reazione era diffidente, e iniziavo subito a cercare qualcosa che non andasse. E’ una reazione immatura, non è vero? Potevo vedere che quando qualcuno cercava di convincermi di qualcosa o di convertirmi a qualche idea, la mia era un’attitudine ostinata, del tipo: “Non voglio farlo, non mi interessa se è la cosa migliore, non voglio credere in questa cosa, perché non voglio che tu abbia ragione”.

Anche se di monachesimo buddhista in realtà non sapevo molto, avevo comunque idee molto precise su quello che i monaci avrebbero dovuto fare. E così ero molto sicuro di quello che non approvavo. Ma poi, vivendo li nel monastero, ho iniziato a vedere come la mia fosse un’attitudine dogmatica e presuntuosa. Così ho iniziato a lasciar andare quest’atteggiamento, e ho capito che si era creato un forte sentimento di affetto nei confronti di Luong Por Chah! Questo affetto veniva da un sentimento di profondo rispetto e di profonda fiducia. Cosi vediamo che il cuore umano in se stesso è un cuore di calore e di amore, e può portare gioia e bellezza in ogni situazione. E quando il cuore è pieno di amore e di gioia, ciò produce effetti non solo sul proprio stato mentale di felicità, ma anche sulle persone che ci sono intorno e nel contesto sociale in cui viviamo. Quando per la prima volta andai a Ubon, pensavo che non sarei rimasto molto a lungo. Ma poi ho finito per rimanerci per quasi dieci anni. E ancora oggi penso a Ubon come a un posto dove mi piacerebbe andare a vivere. Non perché sia un posto bellissimo, perché in effetti non è particolarmente bello, ma perché ho iniziato veramente ad apprezzarlo e ad apprezzare ciò che lì ho ricevuto: il sostegno, l’insegnamento, e la possibilità di condurre una vita spirituale. Così so perfettamente che la mia mente guarda a Ubon Rathcathani come ad un posto santo.

continua … parte 2