Come il loto cresce in grazia e profumo
da un mucchio di rifiuti abbandonati,
la luce del vero discepolo del Buddha
rischiara le buie ombre sparse dall’ignoranza.

(Dhammapada, strofe 58-59)

Qualcuno ha chiesto: “Cos’è un’emozione?”. Non so rispondere direttamente a questa domanda. Non penso nemmeno sia molto utile cercar di dire cosa sia un’emozione. E’ come chiedere: “Cos’è la gravità?”. Se cercassimo in un testo di fisica, troveremmo dettagliate descrizioni matematiche di come funziona la gravità, ma non spiegherebbero cosa sia effettivamente la forza di gravità. Può essere descritta in relazione ai suoi effetti e si possono formulare giudizi precisi su come influenzi la materia. Allo stesso modo, non è difficile dare descrizioni psicologiche o neurofisiologiche dell’attività emotiva, ma non sarebbero gran ché utili. Ma sono contento di questa domanda, perché sono certo che la maggior parte di noi ha scoperto che non possiamo realmente impegnarci nella pratica della consapevolezza senza affrontare forti emozioni. E molto giustamente sentiamo il bisogno di comprendere questa dimensione di noi stessi.

Per la comprensione delle emozioni è utile considerare non tanto cosa siano, ma piuttosto come avere con esse una relazione sciolta. E con questo intendo come arrivare a conoscerci intimamente; imparare attraverso un’indagine personale a vedere dove e come ci ritroviamo bloccati o impediti nella nostra capacità di ricevere l’emozione, la nostra e quella di altri. Dunque, raccomando di sostituire nella domanda il “come” al “cosa”. Com’è sentire quel che sentiamo? Quanto liberamente riusciamo a sentire quel che sentiamo, quando, per esempio, proviamo risentimento o delusione? Ci rifugiamo nella testa e cominciamo ad analizzarci, chiedendoci cosa sia questo rammarico, questa disillusione, cercando di darne una spiegazione?

A questo proposito, un amico medico che mi chiama di tanto in tanto dall’America, mi confidava cosa pensa di quella che i buddhisti chiamano la trasmigrazione attraverso varie sfere di esistenza. Secondo lui, tale discorso rende in forma mitologica il modo in cui si veicola l’informazione che è stata immagazzinata nel cervello. Mi ha dato una spiegazione molto sofisticata che confesso di non aver veramente afferrato. Ma più importante della mia limitata capacità di capire la sua concettualizzazione è che non ho avuto affatto la sensazione che questa interpretazione gli offrisse una risoluzione. E certamente questo è il punto della nostra pratica, portarci a un’esperienza di completezza.

E’ senz’altro corretto interpretare le descrizioni buddhiste tradizionali dei sei reami d’esistenza come realtà interiori che sperimentiamo qui e ora, e non solo in riferimento a possibili vite passate e future. Ma resta il compito di scoprire personalmente come restare consci e tranquilli mentre saliamo in paradiso o cadiamo nei regni infernali. E’ molto facile attaccarsi alle intellettualizzazioni come modo di evitare una comprensione più diretta di noi stessi. Se abbiamo questa tendenza, potremmo mancare la valida occasione di affrontare le nostre intense emozioni e passioni nella loro realtà grezza. Se non arriviamo alla causa fondamentale delle nostre sensazioni dolorose e spiacevoli, continueremo a perderci nel piacere come nel dolore, cadendo nella loro convincente apparenza di permanenza. In conclusione, abbiamo bisogno di accedere a risorse molto più radicate delle descrizioni astratte.

Uno dei fattori che ci impediscono di rivolgerci direttamente a noi stessi nel mezzo delle nostre esplosioni emotive è la paura che così facendo la sofferenza possa aumentare. Possiamo pensare che se smettiamo di resistere all’energia minacciosa, essa ci sommergerà e sarà causa di ogni sorta di umiliazioni. Ma, al contrario di ciò che temiamo, se smettiamo di resistere e investighiamo come riuscire a ricevere l’emozione così come si presenta, scopriremo un accresciuto senso di fiducia e di rispetto di sé nell’entrare in contatto e sviluppare la capacità di restare presenti con qualsiasi cosa sorga. A poco a poco, questo ci porterà a una relazione molto più appropriata, molto più umana. Dalla prospettiva dell’impegno ad accogliere pienamente questa nostra dimensione, comprenderemo direttamente che stipare le emozioni fuori dalla nostra visuale è una cosa poco gentile e anche aggressiva nei nostri confronti. Non c’è da meravigliarsi se non ci sentiamo il nostro migliore amico!

Purtroppo, spesso non abbiamo avuto esempi adeguati di persone che sapevano come accogliere la propria emotività. I responsabili della nostra educazione e crescita soffrivano spesso essi stessi delle conseguenze della loro inconsapevolezza, che si riverberava inevitabilmente su di noi. Abbiamo appreso gli schemi di comportamento delle persone con cui abbiamo vissuto e abbiamo assunto la loro abitudine a stipare in cantina quel che non ci piace o che ci fa paura, sperando che scompaia.  Ma col passare degli anni abbiamo forse cominciato a sentire come se qualcosa andasse perduto. Un’intensa sensazione di vuoto allo stomaco o al cuore che ci fa percepire la mancanza di qualcosa. L’esistenza di questa sensazione su larga scala è un fattore sociale significativo come forza trainante alla base della cultura del consumo, che si fonda su questa sensazione di mancanza di qualcosa. Ma per quanto cerchiamo di mitigare questa sensazione con una “terapia al dettaglio”, il nostro senso di integrità personale non aumenta. Ci sentiamo come se vivessimo la vita di qualcun altro e con la costante paura di essere scoperti.  Tutte le volte che leggo un supplemento del giornale del fine settimana (certe volte la gente lascia i giornali al monastero), ci sono sempre immagini di cibo che catturano lo sguardo. Mi ritrovo a chiedermi se le persone mangino veramente quello che le immagini gli prospettano. Voglio dire che non potreste vivere con quelle minuscole striminzite porzioni servite in quei piatti di classe. Sembra più un esempio di arte grafica che un pranzo, e spesso, naturalmente, è proprio così. E’ un esercizio di design il cui scopo è la distrazione. Lo stesso principio vale per molte attività sportive. Di recente, sono stato da un amico della comunità a Leeds e abbiamo guardato alla televisione un programma sugli sport estremi. “Estremo” è una buona descrizione per molte delle nostre attività. Ma cosa guida tali attività? Invece di tentare di compensare la sensazione di vuoto con il cibo o il profumo o gli sport estremi la pratica del Dhamma ci incoraggia ad aver fiducia che, se discipliniamo l’attenzione abilmente e accuratamente, possiamo rivolgerci a quella sensazione e riceverla senza reagire o schivarla. Com’è realmente sentire: “Voglio qualcosa e ho una sensazione di mancanza, la sensazione di non essere completamente qui”? Quando quel che percepiamo come nemico ci prende, se ci mettiamo davvero in ascolto, anziché un aumento della sofferenza nasce un genuino, spontaneo, caldo senso di gioia.

Quando permetto a questa sensazione di vuoto, spesso nella pancia, di essere ricevuta, mi sento più onesto e più autenticamente vivo. Aspetti correlati all’esperienza cominciano a emergere, ricordi e sensazioni, e se li accompagno, se li seguo e li ascolto, senza perdermi in essi, senza discuterli, ma semplicemente ricevendoli con gentilezza e pazienza, comincio a sentire che c’è tutta questa vita non vissuta, emozioni che non volevo sentire, che non mi piacevano, con cui non ero d’accordo e che perciò ho accumulato in cantina. Sentiamo di mancare di qualcosa, perché manchiamo di qualcosa. C’è tanta parte non riconosciuta della nostra vita che viene portata nell’inconsapevolezza, che non viene accolta, non viene vissuta e diventa irrequieta.

(del venerabile Ajahn Munindo)

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Liberta’ inattesa”
Traduzione di Chandra Livia Candiani.

(Estratto del libro “Libertà inattesa”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini)

Parte seconda