Ho continuato a stare in piedi cantando dolcemente a me stessa il Dhammacakkappavattana Sutta e dando benedizioni ogni volta che qualcuno metteva più cibo nella mia ciotola. Sentivo il movimento della ruota del Dhamma e riflettevo sulle migliaia di anni che questo modo di elemosinare e ricevere ha educato alla fede. Ancora una volta era sostenuto da semplici atti di gentilezza – ora un bambino con un sacco di involtini fritti, ora una donna con un misto di frutta, ora un uomo indiano curioso di conoscere da quale paese io provenissi.

Alcuni chiedevano, quando vedevano la ciotola completamente colma, se collocare le loro offerte direttamente nei sacchi ai miei piedi, volevo accettare ogni offerta nella mia mano qualora non avessi potuto nella mia ciotola e quindi instaurare un senso di connessione e relazione, cantare una benedizione e portare testimonianza della loro gentilezza.

E’ stato in uno di questi momenti fra la sovrabbondanza della ciotola e la febbre da generosità che improvvisamente mi sono sentita un’ipocrita. Ero ben nutrita, insieme ai miei devoti, non mi mancava niente e i sacchi traboccavano di fianco a me. Perché dovevo rimanere lì ad elemosinare? Come potevo osare di riprendere la mia ciotola e chiedere di riempirla all’infinito quando mi era già stato dato tanto? Che diritto avevo perfino di iniziare a elemosinare?

Soffocata e sudata nei miei abiti, queste domande si affollavano nella mia mente. Mi sono ricordata la storia de “L’apprendista stregone” che prova a pulire mentre le scope si moltiplicano e continua a portare acqua. Sembrava assurdo fare giochi di destrezza con così tante borse di cibo quando nella mia pancia non c’era niente.

Non era trascorsa nemmeno mezz’ora che mi sentivo imbarazzata, ansiosa, e incurante di ricevere generosità, cosicché iniziai a sperare di ricevere presto altre elemosine. Quindi, per placare la mia mente iniziai a cantare con voce più alta.

Contemplando le Quattro Nobili Verità, guardavo i piedi di tutti i passanti, indossavano sandali di ogni colore e stile, tacchi alti e scarpe rotte, esseri umani di tutte le età, che si mescolavano, zoppicavano oppure andavano a passo svelto. Guardando i loro volti, ho visto il gobbo, il disabile e il sano, il barbone e il benvestito, il magro e il ciccione, sorrisi e bronci, espressioni preoccupate e distratte, padri, figli, un padre che tiene per mano suo figlio, figli in bicicletta, commercianti che urlano e gli odori del mercato, il mondo – il Mondo.

Il mio cuore si è riempito di compassione. Mi resi conto che io stavo lì per farmi riempire la ciotola all’infinito da coloro che amano la Verità. Affamata o no, avevo ogni diritto di ricevere ciò che essi liberamente mi donavano. Non stavo abusando di quella bellezza perché non era per me che essi riempivano la mia ciotola, elemosinavo l’amore di quel gesto, e il riempirsi e lo svuotarsi della mia ciotola era il processo naturale di ciascuna delle nostre vite ricordate e onorate in atti casuali di gentilezza. Io ricevo e a mia volta dono. […]  ritorna parte 1

tratto dal sito www.santacittarama.it

Il cibo della gentilezza di Sister Ajahn Medhanandi

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Tradotto da Valentino Ferrari – Fonte: www.forestsangha.org/medhanandi12.htm