Estratto da un discorso offerto da Ajahn Amaro, co-abate del monastero di Abhayagiri in California (www.abhayagiri.org), in occasione di una visita al monastero di Cittaviveka, aprile 2003.

SE C’È UNA COSA IL CUI EFFETTO GARANTITO È QUELLO DI SUSCITARE IRRITAZIONE NELLA GENTE, questa cosa è metta, gentilezza amorevole. Cominciare a dire che tutti devono amare tutto significa far scattare quasi certamente il grilletto dell’avversione. Quando conduco ritiri di dieci giorni, frequentemente riscontro che i commenti delle persone sono del tipo “è andato tutto bene fino all’ottavo giorno, quando hai condotto quella meditazione guidata di metta. Quella meditazione mi ha veramente irritato”. E’ singolare quanto comune sia questo tipo di reazione.

A volte la pratica di metta è proposta come un approccio alla Walt Disney “… non sarebbe bello se tutto fosse carino? …” Sembra che si stia tentando di addolcire ogni cosa, di trasformare il mondo in un posto in cui le farfalle svolazzano tutt’intorno, il leone se ne sta sdraiato insieme all’agnello, e i bambini raccolgono le more dallo stesso cespuglio dell’orso grigio. Qualcosa in noi si sente nauseato da quella scena alla Walt Disney, e si rivolta contro. Repentinamente, cominciamo a non vedere l’ora che l’orso dia il colpo di grazia al bambino di tre anni, vogliamo dare fuoco alle farfalle, e chi più ne ha più ne metta. Siamo seccati dal fatto che in un approccio del genere ogni cosa è semplicemente troppo sdolcinata, troppo falsa.

Io ho sperimentato lo stesso tipo di irritazione – lo confesso – e ho trovato che il motivo è che partiamo da un’idea di gentilezza amorevole. Ci si accosta in maniera verbale o concettuale, utilizzando un sistema ripetitivo di parole o frasi. Ciò può esser fatta in tutta sincerità – e alcune persone lo trovano effettivamente d’aiuto e ne traggono molto beneficio – ma alla maggioranza della gente può risultare irritante, o sembrare superficiale. Possiamo propagare la gentilezza amorevole procedendo secondo un ordine geografico, ad esempio si inizia da qui e, a partire da questo posto, la si estende prima attorno al mondo e poi all’intero universo, oppure si incomincia da persone conosciute e che ci sono care, si passa quindi a persone indifferenti, e poi ancora a qualcun altro che non ci piace o a cui siamo noi a non piacere, e, infine, verso l’esterno, in direzione di tutti i differenti piani di esistenza degli esseri. Questa procedura può essere sentita come una lista dei vari esseri, o come una specie di lezione di geografia: ci si accorge di ripetere le frasi nel tentativo di evocare delle immagini, ma che il cuore non è realmente presente.

Quello che ho scoperto contemplando questi aspetti della pratica è che, in effetti, ha più importanza accedere ad un sentimento di affinità, così da radicare un senso genuino di metta, di autentica accettazione e benevolenza fondamentale, dando priorità a quella qualità emotiva. Mi accorgo che metta ha a che vedere con il movimento dell’attenzione verso l’interno di sé stessi, del proprio corpo e della propria mente, del proprio essere, coltivando, in primo luogo, una disposizione amichevole e benevola nei confronti del corpo. Spesso lo si fa focalizzando l’attenzione sul respiro, specialmente nell’area intorno al cuore. Si lavora con questo fino a quando si è capaci di coltivare, dal profondo del cuore, un senso di amicizia genuino e di benevolenza nei riguardi del proprio corpo. Molti di noi possono praticare così senza percepire alcuna sensazione di falsità o superficialità, e questa può essere una pratica molto solida e genuina. Si attende e si lavora in questo modo fino a quando si riesce a coltivare la vera presenza di un atteggiamento di gentilezza e accettazione.

Uno degli aspetti che, se non compreso, contribuisce all’effetto Walt Disney dell’altro tipo di approccio, un punto che Ajahn Sumedho sottolinea regolarmente, è che provare amorevolezza verso le cose non vuol dire che ci piacciono. Avere metta per sè stessi o per gli altri esseri non significa che ci piaccia ogni cosa. Quando cerchiamo di farci piacere tutto, facciamo spesso fiasco, perché è il punto di partenza ad essere completamente sbagliato. Quando assaggiamo qualcosa di amaro e ci sforziamo di credere che sia dolce, questa altro non è che ipocrisia, inzuccherare le cose. Non funziona, anzi peggiora quello che è già amaro, rendendolo tremendamente nauseante e disgustoso.

Conservo un ricordo assai doloroso di una volta in cui molti anni fa, in Thailandia, cercai di soccorrere un altro novizio mio amico. Era francese, non capiva molto bene l’Inglese, ed era ancora meno esperto in fatto di erbe. Avevamo ricevuto un pacco dono dall’America contenente ogni sorta di tisane di diverse qualità; egli ne scelse una all’assenzio e volle prepararla per il tè pomeridiano del Sangha. Mi trovai a passare in cucina mentre la stava facendo: sembrava estremamente agitato e preoccupato. Gli chiesi quale fosse il problema, visto che sembrava essere davvero sconvolto. Lui rispose “E’ terribile. Il tè che sto faccendo per tutti, è assenzio. Non so cos’è, ma è orribile! E’ come una medicina disgustosa”. Al che replicai “Sì, è vero, è una disgustosa medicina, non un tè che si possa preparare come bevanda rinfrescante per tutti”. Essendo io convinto della mia genialità, certo di essere il non plus ultra tra i preparatori di tè, esclamai “Lascia fare a me, non preoccuparti. Tornatene al tuo kuti e riprenditi. Ci penserò io”. Così presi ad occuparmi della preparazione del tè. Provai ad aggiungere dello zucchero. Provai ad aggiungere del sale. Provai ad aggiungere un po’ di polvere di peperoncino. Provai a metterci qualunque cosa riuscissi a immaginarmi per migliorarlo. A quei tempi non c’era l’elettricità, quindi non potevo semplicemente gettare via tutto e ricominciare daccapo – su quei piccoli fuochi a carbone il solo riscaldare l’acqua richiedeva un tempo interminabile. Alla fine pensai “Va bene, dillo pubblicamente e rassegnati alla tua condanna”. Fu così che presi il bollitore con il tè, deciso a servirlo – così com’era – a tutto il Sangha, con una sensazione di non essere stato realmente io a prepararlo. Il mio povero amico, Jinavaro, che stava letteralmente tremando, se ne era andato al suo kuti per riaversi, e fu così che riflettei “Va bene, mi addosserò io la colpa. Effettivamente non sono riuscito a salvarlo questo tè, ma perlomeno lui non si prenderà il rimprovero” – pensai che mi stavo comportando assai nobilmente.

Era la stagione calda, e ce ne stavamo tutti a sedere all’aperto, sotto gli alberi. Offrii la teiera ai monaci, i quali incominciarono a versare il tè. Ci fu un prorompere di rimostranze ed imprecazioni non appena l’Ajahn e gli altri monaci anziani ne ebbero assaggiato un sorso. Sputacchiarono il preparato per terra nella foresta. Ajahn Pabhakaro, che a quel tempo era l’abate, mi si rivolse e proruppe: “Cos’è questo?!”. “Si chiama assenzio, Ajahn”. Ci fu un gran borbottare. Io credevo che i monaci dovessero mostrarsi grati per qualsiasi cosa ricevevano, ma, ad ogni modo, quella fu pure l’occasione in cui cominciai a credere nell’intervento divino. Ecco comparire, tra il disgusto e lo sgomento generale per la rivoltante bevanda, un piccolo pick-up, dal quale scese della gente che non avevamo mai visto prima d’allora. Aprirono la parte posteriore del furgone e tirarono fuori due cassette di Fanta e Pepsi con un grosso secchio di ghiaccio, ce le offrirono, rimontarono sul furgone, e ripartirono. Pensai “Chiunque ne sia il responsabile, magnifico, mi ha appena salvato la testa!”.

Da allora il gusto di quella bevanda estremamente amara e cattiva, ricolma di una tale quantità di zucchero che vi si sarebbe addirittura potuto tener ritto un cucchiaio, si è cristallizzato dentro di me, epitome di un miscuglio nauseante; questo è ciò cui somiglia il nostro sforzo di praticare metta cercando di farci piacere ogni cosa. Al contrario, ciò che si intende realmente con metta è un cuore che può accogliere tutto, che non dimora nell’avversione per le cose. La scoperta di quel cuore capace di accettare genuinamente e completamente il modo in cui le cose sono credo sia di gran lunga più importante dello scorrere liste di esseri o del passare in rassegna un modello geografico. Non stiamo cercando di farci piacere qualsiasi cosa, stiamo piuttosto riconoscendo che ogni cosa appartiene alla natura, è parte di essa l’amaro così come il dolce, il bello come il brutto, il crudele come l’amabile. Definirei cuore di metta, essenza di gentilezza amorevole, il cuore che riconosce che fondamentalmente tutto è in relazione. Se rendiamo veramente chiara questa cosa dentro di noi, e cominciamo ad allenarci a riconoscerla, prendiamo coscienza della possibilità di coltivare questa qualità di accettazione radicale. Pur se, nel contesto dei brahmavihara, metta viene descritta in termini di luminosità o radiosità, essa esprime anche questa qualità di ricettività. Ci sono ricettività ed accettazione. La disponibilità ad aprire il cuore al modo in cui sono le cose.

E’ per questo che non mi piace insegnare metta come una pratica a sé stante, ma più come un’atteggiamento che sottenda ogni singolo aspetto della pratica, sia che si tratti di samadhi o samatha (concentrazione o tranquillità), sia di vipassana (visione profonda). Se manca questa accettazione radicale, questa disposizione di base per cui ogni cosa è correlata, qualunque tentativo di consolidare la concentrazione o la visione profonda avrà esito negativo, internamente viziato da questo elemento di disarmonia. Se mentre sto cercando di concentrarmi considero buona la mente che si sta focalizzando sul respiro, e cattivi i suoni nella stanza o i pensieri che sorgono, la presenza di tale dualismo nella mente andrà ad innescare un conflitto tra ciò che è pertinente e ciò che non lo è – il respiro è pertinente mentre i suoni non lo sono. Si può essere capaci di concentrazione ricorrendo, per una durata di tempo determinata, ad un atto di volontà, ma questo renderà la mente una zona di battaglia, un’area purificata da dover proteggere. Bisogna tenere a bada gli intrusi, fare piazza pulita del male, distruggere o tenere sotto controllo le intrusioni rappresentate dal rumore, dai pensieri, dalle emozioni, dai disagi fisici e via discorrendo, che diventano il nemico. Quello che succede è che si vive in una zona di guerra: puoi scoprire che sei in grado di proteggere il tuo spazio, la tua patria natia può essere al sicuro (per usare un’espressione dolorosamente familiare nel paese in cui mi trovo a vivere in questi giorni…), ma ti ritroverai in piena paranoia, dove il nemico è ovunque, e finisci col vivere in uno stato di paura e tensione continua.

L’atteggiamento secondo il quale tutto è pertinente è la reale visione che tutto è Dhamma, che ogni cosa è parte della natura, ha il suo posto. Tutto è compartecipe. Possiamo fare le nostre scelte partendo da questo riconoscimento dell’interconnessione fondamentale, vedendo che la confusione ha il suo posto, il dolore ha il suo posto, l’agio ha il suo posto. Possiamo fare distinzioni, ma non secondo una discriminazione che parte dalla confusione o è divisiva. Il punto è riconoscere che seguendo questo particolare percorso è probabile che ci saranno concentrazione e chiarezza, mentre seguendo l’altro è probabile che ci saranno confusione e difficoltà. E’ più o meno come quando si è a Chithurst e si ha in mente di andare a Petersfield: una volta arrivati al raccordo con la A272, si gira a destra, non a sinistra. Non che la sinistra sia cattiva o sbagliata per qualche ragione intrinseca, solo che non è la strada da prendere se uno vuole raggiungere Petersfield. Similmente, non ci respingiamo i pensieri o le emozioni che sorgono o i disagi fisici in quanto malvagi o in quanto qualcosa di fondamentalmente sbagliato – semplicemente non è la direzione in cui desideriamo andare. Quindi la capacità di discriminare è presente ma basata sulla qualità fondamentale di sapersi sintonizzare, in cui cuore accoglie ogni cosa come parte della struttura complessiva della natura.

Questo può risultarci difficile, ché si può diventare assai fissati sull’idee di cosa sia il progresso e cosa sia il degenerare, cosa sia buono e cosa cattivo. Può capitare di confonderci tra un giudizio di ordine convenzionale su ciò che è bene e qualcosa di assoluto. Si potrebbe ritenere che il progresso sia buono, che lo sviluppo sia buono, che la crescita sia buona, e invece che la degenerazione, il crollo e la distruzione delle cose siano male – e noi non lo vogliamo. Esaminare questo genere di assunti è molto importante per noi. La crescita non è sempre una cosa buona: il potere della riflessione può essere utilizzato per considerare fino a che punto si spinge il nostro presupposto che sia un bene che le cose migliorino e prosperino. “Questa sì che è una buona cosa. E’ grandioso!” Se guardiamo con gli occhi del Dhamma, ci accorgiamo di come tutto sia relativo, dipendente. Non si dovrebbe dare per scontato che per il solo fatto che qualcosa stia crescendo nel senso dello sviluppo questo debba essere un bene assoluto, ché tutto dipende da come lo si affronta o da cosa ne facciamo.

Oggi mi sono ricordato di quando Ajahn Sumedho ritornò per la prima volta a fare visita a Luang Por Chah, dopo aver trascorso qui un paio di anni. Luang Por Chah gli chiese come stessero andando le cose, e lui rispose: “E’ fantasticoo! C’è davvero un buon gruppo di monaci, abbiamo dei novizi, sono state ordinate quattro monache, tutti sono realmente in armonia e impegnati nella pratica. Osservano scrupolosamente il Vinaya, tutti vanno assai d’accordo e si aiutano a vicenda….”. Il suo crescendo lirico proseguiva su questo tono. Finalmente si fermò per riprendere fiato, dando così modo a Luang Por di rispondere. Questi aspettò un momento, quindi prese la parola: “Uuurgh! Bene, non avrete modo di sviluppare molta saggezza vivendo in una simile comitiva.” Luang Por non si faceva impressionare. Pensava sempre che fosse la frizione ad avere qualcosa da insegnare, e che non bisognasse compiacersi dell’assenza di attrito, perché quando tutto scorre liscio ci si addormenta. Ajahn Chah era genuinamente distaccato, e non stava recitando per far colpo su Ajahn Sumedho. “Be’, forse potrei mandarvi qualcuno per ravvivare un pochino la situazione.”

Si può partire dall’assunto che la condizione ideale è quando ogni cosa sta andando per il verso giusto e tutti stanno facendo progressi. Se non è così: “Oddio, quest’individuo è un tipo difficile. Oddio, siamo rimasti al verde….”. Contemplare queste dinamiche e non creare degli assunti è davvero importante. Se si è dipendenti dal successo e dallo sviluppo, cosa accade quando tutto crolla? Che cosa succede quando all’improvviso c’è una perdita, quando c’è la morte? Vuol dire che tutto è andato nel modo sbagliato? Come affrontiamo una cosa così? Che cosa ci insegna? Luang Por sottolineava sempre che saggezza è imparare da tutto, che il retto atteggiamento rispetto alla pratica è coltivare la prontezza ad apprendere da tutto. Quando consolidiamo questo nucleo di accettazione, di autentica gentilezza amorevole, allora il nostro cuore si apre ad ogni cosa. A quel punto, sia che lo si chiami successo – facciamo un ritiro e ci accorgiamo che la nostra mente si mette con facilità a proprio agio, e trabocchiamo di intuizioni profonde – sia che lo si chiami fallimento – non facciamo altro che dimenarci e lottare, rimuginando antichi risentimenti, con il mal di schiena e un sacco di ansie riguardo al futuro, il tutto mescolato ad un’irritazione prorompente verso l’insegnante –, ognuna di queste cose ci sarà di insegnamento, a condizione che permettiamo loro di esserlo. Se saremo saggi, tutto ci insegnerà: il successo, il fallimento, la realizzazione, la perdita, il piacere ed il dolore.

In un sutta il Buddha dice “la sofferenza può maturare in due modi: in ulteriore sofferenza o in ricerca.” Quando facciamo un’amara esperienza, possiamo aggravarla – temendola, fuggendola o combattendola – oppure essa può evolvere in ricerca, il che implica presenza di una qualità di saggezza che riconosce “Oh, so cos’è questo. Dev’esserci una causa. Come affrontarlo? Che posso imparare da esso?”. Ecco uno dei modi di comprendere come il Buddha ci ha stimolato alla ricerca. Noi qui stiamo riflettendo sulla nostra esperienza. Gran parte dell’educazione spirituale è basata sulla capacità di avere questa qualità di accettazione, sull’essere disponibili ad imparare da dukkha, dall’indesiderato, dalla sofferenza.

© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Giuliana Martini.