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(di Ajahn Sucitto)

[per libera distribuzione]

(Tradotto da Letizia Baglioni)

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Pur avendo insegnato per quarantacinque anni, il Buddha affermava che c’era tutta una serie di cose che aveva compreso ma non insegnato. E perché non le aveva insegnate? Perché saperle non era indispensabile ai fini della comprensione cui attribuiva il massimo valore: ossia, che il modo in cui l’individuo ordinario sperimenta la propria vita contiene un elemento di non-soddisfacibilità, e che questa insoddisfazione può essere eliminata. In breve, che l’essere umano è in grado di sperimentare un sostenuto sentimento di benessere, o di felicità, indipendente dalle circostanze.

Al Buddha non interessava fondare una nuova religione o radunare un vasto seguito di discepoli, quanto piuttosto aiutare chi lo desiderasse a conseguire il semplice obbiettivo del benessere. Nessuno ha bisogno di essere ‘convertito’ a questa causa, perché, a ben pensarci, è quello che già cerchiamo attraverso ogni sorta di progetti spirituali e materiali. In effetti, il Buddha esortava a non seguire i suoi consigli senza prima sottoporli al vaglio dell’esperienza personale. Solo attraverso la ricerca e il costituirsi di proprie autonome certezze è possibile realizzare quella verità che può assicurarci una felicità indipendente. Limitarsi a credere – o a non credere – ciecamente, significa dipendere da un sistema di assunti circa ciò che dovremmo o potremmo essere, circa la natura del mondo o ciò che speriamo (o temiamo) ci accada al momento della morte.

A ben riflettere, si può dire che gran parte della nostra realtà sia fatta di supposizioni. Supponiamo di abitare un corpo fisico che abbandoneremo al momento della morte; ma in realtà, dove sono ‘io’ in questo corpo? Se sezionate un corpo, non ci trovate dentro nessuno! Né questo ‘individuo interiore’ è in grado di vedere il corpo dall’interno, sebbene si sperimenti di volta in volta come soggetto che genera pensieri e stati d’animo o come oggetto che riceve tutta una serie di impressioni sensoriali. Intrappolato in questa posizione, l’‘individuo interiore’ è tuttavia incapace di garantire che questo costante flusso in entrata e in uscita sia gradevole, interessante o perfino gestibile. E questo è una grossa fonte di tensione, bisogno e frustrazione.

Ciò che un Buddha sa è che questo singolare ‘io’ non potrà mai essere soddisfatto: anche un’impressione piacevole tende alla lunga a diventare noiosa. Difatti l’esperienza del piacere nel suo complesso si basa su l’una o l’altra di due modalità percettive transitorie: quella secondo cui ‘io’ vengo attratto e mi unisco a ciò che è piacevole, o quella secondo cui ‘io’ sono separato da ciò che è spiacevole. Tuttavia, quando la coscienza si unisce a un oggetto piacevole è privata dello spazio che le consente di goderne: da cui il bisogno di avere più piacere. Gran parte del nostro cosiddetto piacer si intreccia all’anticipazione del piacere futuro o al ricordo del piacere passato. D’altro canto, le cose spiacevoli continuano a succederci, malgrado i nostri sforzi per proteggerci; e lo sforzo di conservare sicurezza e benessere diventa di per sé un dispiacere. La felicità duratura non sembra derivare dal conseguire il piacere ed evitare il dispiacere; e dunque, è mai possibile trovare la felicità in qualcosa che il senso dell’‘io’, con i suoi bisogni e giudizi,esperisce?

Si potrebbe obbiettare che un simile ragionamento porta al pessimismo. Dato che noi raramente o mai facciamo esperienza di qualcosa liberi dal senso dell’‘io’, una drastica liquidazione della ‘mia’ dimensione esperienziale non può che suonare deprimente. Ma il Buddha insegna a trovare la felicità in questa vita, con un corpo, sentimenti, pensieri – liberi però dal senso dell’io. Fondamentalmente ciò si realizza attraverso uno stile di vita e un tirocinio volto a equilibrare e rafforzare la mente. L’esperienza del Buddha fu che non c’è bisogno di distruggere l’‘io’: così come un miraggio svanisce quando vengono meno le condizioni che lo producono, allo stesso modo il senso dell’io – che ha la stessa concretezza di un miraggio – si dissipa quando le condizioni che lo sostengono non vengono più generate. È una sorta di profondo rilassamento, di riposo – il Buddha lo definiva ‘fermarsi’ – che dona alla mente la quiete di uno specchio d’acqua e al tempo stesso una straordinaria sensibilità.

Ciò richiede una profonda trasformazione delle nostre abitudini, e forse molti anni di pratica. Cosa ci dice che tutto questo sia vero o possibile? Provate per qualche giorno: la pratica offre un saggio delle qualità della meta. Anche se non abbiamo raggiunto quella profonda liberazione di cui parla il Buddha, se ci scopriamo a praticare con gioia possiamo confidare che il Sentiero corrisponda alle nostre aspirazioni.

La felicità della pratica, e della meta, si può riassumere in tre aspetti: la felicità delle buone azioni, la felicità della chiarezza e della quiete, la felicità della comprensione. Se agiamo con una mente pura, con onestà, non-violenza e amore, vivremo liberi dal rimorso. Avremo buoni amici e nutriremo fiducia e rispetto per noi stessi. Indipendentemente dalla buona o dalla cattiva sorte, avremo una fonte di felicità slegata dagli alti e bassi del mondo. In secondo luogo, se attraverso la meditazione impariamo a educare la mente alla concentrazione, alla quiete, a essere pienamente ricettiva sia a quanto avviene che alla coscienza entro cui avviene, il risultato sarà una felicità della medesima natura. Invece di essere trascinata di qua e di là, vuoi dall, vuoi dalla noia, vuoi dalla depressione, la mente gode di un proprio autonomo equilibrio. Ha una forza e una calma naturali che ci accompagnano nei cambiamenti della vita.

Ma la felicità più grande viene dalla comprensione. Con una mente più stabile, possiamo esaminare le cause interne del nostro bisogno e della nostra ansia. Una mente che è stata educata in termini di attenzione e di calma riconosce che le cause latenti di insoddisfazione hanno origine tutte da un ‘cercare di’. Tentare di rimediare al passato, cercare di anticipare il futuro, cercare di ottenere, cercare di eliminare, cercare di sapere quello che non sappiamo, e via dicendo. Questo “cercare” suscita il senso dell’io, e al tempo stesso ne condiziona l’espressione nel futuro. Con l’equilibrio e la fiducia che le altre forme di felicità ci consentono, diviene possibile “lasciar andare”, rilassarci e accostarci alla vita così com’è nel momento presente. Allora il senso di oppressione, il bisogno e il dubbio non hanno più ragione di essere.

A volte c’è un modo tutto buddhista di attaccarsi alla sofferenza, magari pensando che “tutto è sofferenza” o che la pratica sta andando bene se uno si scopre pieno di conflitti emotivi. Certo, non ci si può aspettare che l’introspezione riveli sempre un quadro di armonia, però a volte possiamo perfino dimenticarci di notare il nostro benessere, o considerarlo irrilevante: quel che conta è la sofferenza. Ma l’intuizione del Buddha fu che l’infelicità non è “quel che conta”, è un’aggiunta. Nella sua natura originaria, la mente è luminosa e non turbata. Noi lo dimentichiamo, e ci perdiamo nei sogni. Pieno di compassione, il Buddha ci invita a svegliarci, e ci offre i mezzi per andare a vedere di persona.

tratto da Lista Sadhana – Guido Da Todi