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Vivevamo con la febbre, affrontavamo la morte e siamo sopravvissuti tutti.

Ma non è mai stato un problema.

In ogni casa e in ogni comunità, che si viva in città, in campagna, nella foresta, o sulle montagne, siamo tutti uguali nell’esperire la felicità e la sofferenza. Molti di noi mancano di un luogo che faccia da rifugio, un campo o un giardino dove si possano coltivare le qualità positive del cuore. Viviamo questa povertà spirituale perché non abbiamo un vero impegno; non abbiamo una chiara comprensione di cosa sia questa vita e di cosa sia necessario fare. Dall’infanzia, alla giovinezza, fino alla maturità, impariamo solo a inseguire il godimento e il piacere sensoriale. Non pensiamo mai che un pericolo ci possa minacciare nel corso della vita, mentre ci facciamo una famiglia e via dicendo.

Se non abbiamo un terreno da coltivare e una casa in cui vivere, siamo privi di un rifugio esterno e la nostra vita è colma di difficoltà e di angoscia. Oltre a questo, c’è la mancanza interiore di non avere sīla e il Dhamma nella nostra vita, il non andare ad ascoltare gli insegnamenti e il non praticare il Dhamma. Come risultato, c’è poca saggezza nella nostra esistenza e ogni cosa regredisce e degenera. Il Buddha, il nostro supremo Maestro, nutriva mettā (gentilezza amorevole) per ogni essere. Portò all’ordinazione figli e figlie di buona famiglia, per praticare, e realizzare la verità, per rendere saldo e diffondere il Dhamma, per mostrare alle persone come vivere felici nella vita quotidiana. Insegnò il modo appropriato per guadagnarsi da vivere, per essere moderati e parsimoniosi nel gestire le finanze, per agire con avvedutezza in tutte le proprie faccende.

Ma quando siamo mancanti su entrambi i fronti, esternamente nel sostegno materiale alla sopravvivenza e internamente in quello spirituale, col passare del tempo e il crescere del numero delle persone, l’illusione, la povertà e le difficoltà diventano per noi la causa di una crescente estraneità nei confronti del Dhamma. Non ci interessa cercare il Dhamma, a causa delle nostre condizioni di difficoltà. Anche se nelle vicinanze c’è un monastero, non abbiamo voglia di andare ad ascoltare gli insegnamenti, perché siamo ossessionati dalla povertà, dai problemi e dalle difficoltà della sopravvivenza. Ma il Buddha insegnò che, per quanto poveri, non dovremmo permettere che si impoverisca il nostro cuore e che la nostra saggezza soffra la fame. Anche se i nostri campi vengono inondati da una piena, insieme alla nostra casa e al nostro villaggio, al punto da non poter più fare niente, il Buddha ci ha insegnato a non permettere che si inondi e si sommerga il nostro cuore. Un cuore inondato significa perdere la visione e la conoscenza del Dhamma.

C’è l’ogha, l’inondazione, della sensualità, la piena del divenire, quella delle visioni e dell’ignoranza. Queste quattro inondazioni oscurano e aggrovigliano il cuore degli esseri. Sono peggiori dell’acqua che alluviona i nostri campi, i paesi, le città. Anche se l’acqua continua nel corso degli anni a sommergere i nostri campi, o il fuoco brucia la nostra casa, abbiamo pur sempre la nostra mente. Se la nostra mente ha sīla e il Dhamma, possiamo utilizzare la nostra saggezza e trovare il modo di guadagnarci il sostentamento per vivere. Possiamo comprare un nuovo terreno e ricominciare da capo.

Quando abbiamo i mezzi di sopravvivenza, la casa e i nostri possessi, la mente può essere a suo agio e integra, e possiamo avere energia spirituale per aiutare e assistere gli altri. Condividere cibo e vestiti, dare alloggio a chi ne ha necessità, sono atti di gentilezza amorevole. Secondo me, dare con lo spirito della gentilezza amorevole è un’azione migliore che vendere con lo spirito del profitto. Chi ha mettā non desidera niente per sé. Desidera solo che gli altri vivano felici.

Se veramente addestriamo la mente e ci impegniamo nel modo retto, penso che non incontreremo serie difficoltà. Non vivremo un’estrema povertà, non saremo come lombrichi. Abbiamo pur sempre uno scheletro, occhi e orecchie, braccia e gambe. Possiamo mangiare della frutta, non dobbiamo mangiare la terra come un verme. Se vi lamentate della povertà, se affondate nel fango sentendo quanto siete sfortunati, il lombrico vi dirà: “Non dispiacerti così tanto. Non hai ancora braccia, gambe e ossa? Io non li ho, ma non mi sento povero.” Il lombrico ci farà vergognare.

Un giorno venne a trovarmi un allevatore di maiali. Si lamentava: “Oddio, quest’anno è stato proprio troppo! Il prezzo del mangime è alto. Quello del maiale è basso. Sto perdendo la camicia!” Ascoltai i suoi lamenti e poi dissi: “Non si senta troppo infelice, signore. Se fosse un maiale allora sì che avrebbe motivo per dispiacersi. Quando il prezzo del maiale è alto, i maiali vengono macellati. Quando è basso, vengono macellati lo stesso. I maiali sì che hanno di che lamentarsi. Le persone non dovrebbero lamentarsi. Provi a pensarci seriamente.”

Si preoccupava solo di quanto avrebbe guadagnato. I maiali hanno molte più preoccupazioni, ma noi non ci pensiamo. Noi non veniamo uccisi; quindi possiamo trovare ancora un modo per farcela.

Io credo veramente che se ascoltate il Dhamma, lo contemplate e lo comprendete, potete metter fine alla sofferenza. Sapete cosa è giusto fare, cosa avete bisogno di fare, cosa avete bisogno di usare e di spendere. Potete vivere la vostra vita in accordo con silā e il Dhamma, applicando la saggezza alle faccende del mondo. Ma molti di noi sono lontani da tutto questo. Non abbiamo moralità o il Dhamma nella nostra vita, che si riempie così di discordia e di attrito. C’è discordia tra marito e moglie, tra figli e genitori. I figli non ascoltano i genitori, proprio a causa della mancanza di Dhamma in famiglia. Le persone non sono interessate ad ascoltare il Dhamma e a imparare qualcosa e così, anziché imparare il buon senso e la destrezza, restano intrappolati nell’ignoranza e il risultato sono vite di sofferenza.

Il Buddha insegnò il Dhamma e spiegò il percorso della pratica. Non voleva complicarci la vita. Voleva che migliorassimo, che diventassimo migliori e più accorti. E’ solo che non ascoltiamo. Non è molto bello. E’ come un bambino che non vuole fare il bagno in inverno perché fa troppo freddo. Il bambino comincia ad avere così tanto cattivo odore che i genitori non riescono a dormire di notte, dunque lo afferrano e gli fanno un bagno. Questo fa ammattire il bambino che piange e urla ai genitori.

I genitori e il bambino vedono la situazione in modo diverso. Per il bambino, è un disagio troppo grande fare un bagno d’inverno. Per i genitori, l’odore del bambino è insopportabile. Le due prospettive non si conciliano. Il Buddha non voleva semplicemente lasciarci così come siamo. Voleva che fossimo diligenti e che lavorassimo intensamente in modi positivi e benefici, e che fossimo entusiasti verso il retto sentiero. Anziché essere pigri, dobbiamo fare degli sforzi. Il suo insegnamento non ci rende insulsi o inutili. Ci insegna come sviluppare e applicare la saggezza a qualsiasi cosa facciamo, lavorando, coltivando, badando a una famiglia, gestendo le nostre finanze, consapevoli di tutti gli aspetti di queste faccende. Se viviamo nel mondo, dobbiamo fare attenzione e conoscere le vie del mondo. Altrimenti, finiamo in terribili difficoltà.

Noi viviamo in un posto in cui il Buddha e il suo Dhamma ci sono familiari. Ma allora ci facciamo l’idea che tutto quello che dobbiamo fare sia andare ad ascoltare gli insegnamenti e poi prenderla alla leggera, vivendo la nostra vita tale e quale a prima. E’ un grave fraintendimento. In questo modo, come avrebbe fatto il Buddha a raggiungere una qualche conoscenza? Non ci sarebbe mai stato un Buddha.

Egli parlò di vari tipi di ricchezze: la ricchezza dell’esistenza umana, la ricchezza del regno celeste, la ricchezza del Nibbāna. Quelli che hanno il Dhamma, anche se vivono nel mondo, non sono poveri. E anche se lo sono, non ne soffrono. Se viviamo in accordo col Dhamma, non proviamo angoscia quando ricordiamo quel che abbiamo fatto. Creiamo solo buon kamma. Se creiamo cattivo kamma, allora, più tardi, il risultato sarà l’infelicità. Se non abbiamo creato kamma negativo, non soffriremo questi risultati in futuro. Ma se non cerchiamo di cambiare le nostre abitudini e di smettere con le azioni sbagliate, le nostre difficoltà non avranno mai fine, sorgeranno angosce mentali o preoccupazioni materiali. Dunque, dobbiamo ascoltare e contemplare, e allora possiamo vedere da dove vengono le difficoltà. Avete mai trasportato nei campi qualcosa su un bastone sopra le spalle? Quando il carico è troppo pesante sul davanti, non è difficile da trasportare? E non è lo stesso, quando è troppo pesante dietro? Qual è il modo equilibrato e quale non lo è? Lo potete scoprire facendolo. Lo stesso vale per il Dhamma. Ci sono la causa e l’effetto, c’è il senso comune. Se il peso è bilanciato, è più facile da trasportare. Possiamo vivere le nostre vite in modo equilibrato, con un atteggiamento di moderazione. Le relazioni familiari e il lavoro possono essere più armoniose. Anche se non siete ricchi, potete avere la mente serena; non c’è bisogno di soffrirne.

Se una famiglia non lavora duramente, finisce in una situazione difficile e quando vede che gli altri hanno di più, prova avidità, gelosia e risentimento e può essere indotta a rubare. Allora, il paese diventa un luogo infelice. E’ meglio lavorare a vantaggio di se stessi e della propria famiglia per questa vita e anche per le future. Se i vostri bisogni materiali vengono soddisfatti grazie ai vostri sforzi, la vostra mente è felice e rilassata, e questo conduce ad ascoltare gli insegnamenti di Dhamma, a imparare riguardo al giusto e allo sbagliato, alla virtù e all’azione biasimevole, e a continuare a cambiare la propria vita orientandola al meglio. Imparate a capire come le azioni sbagliate creino solo avversità e rinuncerete a tali azioni e continuerete a migliorare. Il vostro modo di lavorare cambierà e cambierà la vostra mente. Passerete dall’ essere una persona ignorante a essere una persona che sa conoscere. Da una persona con cattive abitudini a una persona dal buon cuore. Potrete insegnare quel che sapete ai figli e ai nipoti. Così, facendo quel che è giusto nel presente, si crea beneficio per il futuro. Ma chi non ha saggezza non fa nulla di benefico nel presente e finisce solo nelle avversità. Se diventa povero, pensa solo a giocare d’azzardo. E alla fine, si mette a rubare.

Non siamo ancora morti, dunque questo è il momento giusto per parlare di questi argomenti. Se non ascoltate il Dhamma finché siete esseri umani, non avrete altre occasioni. Pensate che si possa insegnare il Dhamma agli animali? La vita degli animali è molto più dura della nostra, è più difficile se si è nati rospo o rana, maiale o cane, cobra o vipera, scoiattolo o coniglio. Quando la gente li vede, pensa solo a ucciderli o a fargli male, a catturarli o ad allevarli per essere mangiati.

Come umani abbiamo un’opportunità. E’ molto meglio! Siamo ancora vivi e dunque ora è il momento giusto per osservare e correggersi. Se la situazione è difficile, per il momento cercate di tollerare la difficoltà, e vivete in modo retto finché un giorno supererete la difficoltà. Questo è praticare il Dhamma.

Desidero rammentarvi quanto sia necessario avere una buona mente e vivere la propria vita in modo etico. Avendo già compiuto molte azioni fino ad ora, dovreste dare uno sguardo ed esaminare se sono buone o no. Se avete seguito delle vie sbagliate, rinunciateci. Rinunciate a un modo di vivere errato. Guadagnatevi da vivere in modo buono e decente, che non faccia del male agli altri, né a voi stessi, né alla società. Se praticate il retto modo di guadagnarvi da vivere, potete vivere con una mente serena.

Noi monaci e monache dipendiamo dai laici per tutti i bisogni materiali. E ci affidiamo alla contemplazione per poter spiegare il Dhamma ai laici perché possano comprenderlo e averne beneficio e migliorare la loro vita. Potete imparare a riconoscere e a eliminare qualsiasi causa d’infelicità e di conflitto. E sforzarvi di andare d’accordo, di avere armonia nelle relazioni anziché sfruttarvi o farvi del male.

In quest’epoca, le situazioni sono difficili. Non è facile andare d’accordo. Anche quando poche persone si riuniscono per un breve incontro, non funziona. Si guardano in faccia tre volte, e sono già pronti a uccidersi a vicenda. Perché succede così? Semplicemente perché le persone non hanno silā o il Dhamma nella loro vita.

All’epoca dei nostri genitori, era molto diverso. Anche solo il modo di guardarsi delle persone dimostrava affetto e amicizia. Ora, non è più così. Se uno straniero arriva verso sera in paese, sono tutti sospettosi: “Come mai arriva qui di notte?” Perché dovremmo aver paura di una persona che arriva in paese? Se arriva un cane sconosciuto, nessuno gli attribuisce un secondo fine. Allora, una persona è peggio di un cane? “E’ uno straniero, una persona strana.” Cos’è uno straniero? Quando qualcuno arriva in paese, dovremmo essere contenti: ha bisogno di un riparo e dunque può stare con noi e possiamo prendercene cura e aiutarlo. Avremo compagnia.

Ma oggigiorno, non c’è più tradizione di ospitalità e di buona volontà. C’è solo paura e sospetto. Mi viene da dire che in alcuni paesi non ci sono più esseri umani, ma solo animali. Sospettano di tutto, sono possessivi con ogni cespuglio e ogni centimetro di terra, perché non c’è moralità, non c’è spiritualità. Quando non c’è silā e non c’è Dhamma, viviamo vite di disagio e di paranoia. Le persone di notte vanno a dormire e d’improvviso si svegliano, preoccupate di cosa possa succedere o di qualche rumore che hanno avvertito. Le persone nei paesi non vanno d’accordo e non si fidano le une delle altre. Genitori e figli non si fidano reciprocamente. Marito e moglie non si fidano. Che sta succedendo?

Tutto questo è il risultato di essere lontani dal Dhamma e di vivere senza il Dhamma. Ovunque guardi, è così e la vita è difficile. Se arrivano persone in paese e chiedono riparo per la notte, ora gli viene detto di andare a cercare un hotel. Ora, è tutta questione di soldi. In passato, nessuno li avrebbe mandati via a quel modo. L’intero villaggio avrebbe fatto a gara per offrire ospitalità. Avrebbero invitato i vicini e tutti avrebbero portato cibo e bevande da condividere con gli ospiti. Ora, non è più possibile. Le persone dopo aver cenato, guardano verso la porta.

Da qualunque parte nel mondo, adesso è così che vanno le cose. Questo significa che il non spirituale prospera e soppianta il resto. In generale, non siamo felici e non ci fidiamo per lo più di nessuno. In quest’epoca, c’è chi uccide i suoi genitori. Marito e moglie si tagliano la gola. C’è molta sofferenza nella società ed è semplicemente per questa mancanza di silā e di Dhamma. Dunque, cercate di capirlo e non trascurate i principi della virtù. Grazie alla virtù e alla spiritualità, la vita umana può essere felice. Senza, diventiamo come animali.

Il Buddha nacque nella foresta. Essendo nato nella foresta, è nella foresta che studiò il Dhamma. E insegnò il Dhamma nella foresta, iniziando col Discorso della messa in moto della Ruota del Dhamma. Entrò nel Nibbāna nella foresta.

E’ importante per chi tra noi vive nella foresta comprendere la foresta. Vivere nella foresta non significa che la nostra mente diventi selvaggia, come quella degli animali selvatici. La nostra mente può elevarsi e diventare spiritualmente nobile. E’ questo che disse il Buddha. In città, si vive nella distrazione e nella confusione. Nella foresta c’è pace e tranquillità. Possiamo contemplare le cose con chiarezza e sviluppare la saggezza. Questa pace e tranquillità diventano i nostri amici e i nostri aiutanti. Questo ambiente dispone alla pratica del Dhamma e perciò lo eleggiamo a nostra dimora; scegliamo come rifugio montagne e grotte. Osservando i fenomeni naturali, nasce la saggezza. Impariamo dagli alberi e da tutto il resto e li comprendiamo e si crea uno stato di gioia. I suoni della natura non ci disturbano. Sentire i richiami degli uccelli è un grande godimento. Non reagiamo con avversione e non nutriamo pensieri nocivi. Non parliamo con asprezza e non agiamo aggressivamente verso niente e nessuno. Ascoltare i rumori della foresta allieta la mente; anche durante l’ascolto dei suoni, la mente è tranquilla.

I rumori delle persone invece non sono suoni tranquilli. Anche quando le persone si parlano amabilmente, alla mente non arriva una profonda tranquillità. I suoni che le persone amano, come la musica, non sono tranquilli. Causano eccitazione e piacere, ma in essi non c’è pace. Quando le persone sono insieme e cercano in questo modo il piacere, di solito parlano in modo disattento e aggressivo, litigioso e le condizioni disturbanti continuano a crescere.

Così sono i suoni umani. Non portano vero agio e felicità, a meno che non siano parole di Dhamma. Generalmente, quando le persone vivono insieme in società, parlano dei loro interessi, turbandosi a vicenda, offendendosi e accusandosi e l’unico risultato è la confusione e il turbamento. Senza il Dhamma, le persone tendono naturalmente a essere così. I suoni degli esseri umani ci conducono nell’illusione. I suoni della musica e le parole delle canzoni agitano e confondono la mente. Osservatelo. Considerate le sensazioni piacevoli che provengono dall’ascolto della musica. Le persone pensano che sia una cosa meravigliosa, che diverte moltissimo. Riescono a stare in piedi sotto il sole cocente, mentre ascoltano una musica o assistono a uno spettacolo di danza. Riescono a stare lì finché non sono cotti a puntino, ma continuano a pensare che si stanno divertendo. Ma poi, se qualcuno gli parla con durezza, li critica o li insulta, ritornano infelici. Ecco cosa succede normalmente con i suoni ordinari degli esseri umani. Ma se i suoni umani diventano i suoni del Dhamma, se la mente è Dhamma e parliamo la lingua del Dhamma, è una cosa degna di ascolto, qualcosa su cui riflettere, da studiare e contemplare.

Quel tipo di suono è positivo, non in modo eccessivo, sbilanciato, ma in un modo che procura felicità e tranquillità. I normali suoni umani, in generale, portano solo confusione, turbamento, rovello. Fanno sorgere sensualità, rabbia e confusione e spingono le persone a essere avide e ingorde, a voler ferire e distruggere gli altri. I suoni della foresta non sono così. Il canto di un uccello non ci suscita sensualità o rabbia.

Dovremmo usare il nostro tempo per averne un beneficio ora, nel presente. Questa era l’intenzione del Buddha: beneficio in questa vita, beneficio nelle vite future. In questa vita, fin dall’infanzia abbiamo bisogno d’impegnarci per studiare, imparare se non altro quel tanto per riuscire a guadagnarci il sostentamento per noi stessi ed eventualmente per farci una famiglia e non vivere in povertà. Ma, generalmente, non abbiamo un atteggiamento tanto responsabile. Ricerchiamo piuttosto il godimento. Dovunque ci sia una festa, un divertimento, o un concerto, ci mettiamo in marcia, anche se si avvicina il tempo della mietitura. Gli anziani trascinano i nipoti ad ascoltare il cantante famoso.

“Dove stai andando nonna?”

“Porto i bambini al concerto.”

Non so se sia la nonna a portare i bambini o i bambini a portare lei. Non importa quanto lungo o difficile possa essere il tragitto. Ci continuano ad andare. Dicono di volerci portare i bambini, ma la verità è che vogliono andarci loro. In questo consiste per loro un divertimento. Se li invitate al monastero ad ascoltare il Dhamma e a imparare cosa è giusto e cosa sbagliato, rispondono: “Vai tu, io voglio stare a casa a riposare.” Oppure: “Ho mal di testa, mi fa male la schiena, mi dolgono le ginocchia, proprio non mi sento bene…” Ma se tratta di un cantante famoso o di una commedia entusiasmante, si precipitano a prendere i bambini e non c’è più niente che li infastidisca.

Così è la gente. Fanno un sacco di sforzi, il cui risultato è solo di procurarsi sofferenza e difficoltà. Vanno in cerca di oscurità, confusione e intossicazione sul sentiero dell’illusione. Il Buddha ci insegna come creare beneficio per noi in questa vita, il supremo beneficio, il benessere spirituale. Va fatto ora, in questa vita. Dovremmo cercare la conoscenza che ci aiuta a farlo, in modo da poter vivere bene la nostra vita, facendo buon uso delle nostre risorse, lavorando con diligenza all’interno di un retto modo di vivere.

Dopo l’ordinazione, iniziai la mia pratica, a studiare e poi a praticare e così sorse la fede. All’inizio della mia pratica, riflettevo sulla vita degli esseri nel mondo. Mi sembravano tutte vite strazianti e degne di compassione. Ma cosa era tanto pietoso? I ricchi sarebbero presto morti e avrebbero dovuto lasciarsi alle spalle le loro grandi case e i figli e i nipoti a lottare per la proprietà. Quando vedevo succedere queste cose, pensavo: mmmm… Mi colpiva. Provavo pietà per i ricchi come per i poveri, per i saggi e gli stolti; tutti quelli che vivono in questo mondo sono nella stessa barca.

Riflettere sul nostro corpo, sulla condizione del mondo e sulla vita degli esseri senzienti, fa provare stanchezza e imparzialità. Pensando alla vita monastica, al fatto di aver scelto questa vita per vivere e praticare nella foresta, e sviluppare un costante atteggiamento di disincanto e di equanimità, la nostra pratica progredirà. Pensando costantemente ai fattori della pratica, emerge il rapimento. I peli del corpo si drizzano. Nasce una sensazione di gioia riflettendo sul nostro modo di vivere, paragonando la vita di prima a quella di adesso.

Il Dhamma mi riempiva il cuore di queste sensazioni. Non sapevo con chi parlarne. Ero sveglio e all’erta in qualunque situazione mi trovassi. Vuol dire che avevo una certa conoscenza del Dhamma. La mia mente era luminosa e capivo moltissime cose. Sentivo beatitudine e un profondo senso di soddisfazione e di letizia nel mio modo di vivere.

In breve, mi sentivo diverso dagli altri. Ero un adulto, un uomo normale, ma ero in grado di vivere nella foresta. Non avevo rimpianti né un senso di perdita. Quando vedevo gli altri con le loro famiglie, pensavo che quello sì era spiacevole. Mi guardavo attorno e pensavo: ma quanti riescono a vivere così? Avevo una vera fede e fiducia nel sentiero di pratica che avevo scelto e questa fede mi ha sostenuto fino a questo momento.

Nei primi tempi di Wat Pah Pong, c’erano quattro o cinque monaci che vi vivevano con me. Affrontavamo tantissime difficoltà. Dal mio punto di vista attuale, molti di noi buddhisti sono parecchio insufficienti nella pratica. Oggigiorno, entrando in un monastero si vedono solo i kuti (le capanne dei monaci), la sala del tempio, i terreni del monastero e i monaci. Ma il vero cuore della via del Buddha (Buddhasāsanā) non lo troverete. Ne ho parlato spesso; è molto triste.

Un tempo, avevo un compagno di Dhamma che si interessava di più allo studio che alla pratica. Seguiva gli studi di pali e dell’Abhidhamma, e andò perciò a vivere a Bangkok e alla fine completò i suoi studi e ricevette un certificato e dei titoli di studio che attestavano la sua erudizione. Ora è un nome rinomato. Qui, io non ho nomi rinomati. Ho studiato al di fuori dei modelli, contemplando le cose e praticando, riflettendo e praticando. Così, non mi sono guadagnato il bollino di marca come gli altri. In questo monastero, ci sono monaci ordinari, persone che non hanno molta erudizione, ma che sono molto determinate a praticare.

Arrivai in questo posto su invito di mia madre. Era stata lei a prendersi cura di me e a sostenermi fin dalla nascita, ma non avevo ancora avuto occasione di ripagare la sua gentilezza e così pensai che un modo potesse essere quello di venire qui a Wat Pah Pong. Avevo un certo legame con questo posto. Quand’ero bambino, ricordo di aver sentito dire da mio padre che Ajahn Sao (un monaco della tradizione della foresta altamente rispettato, considerato un Arahant e il maestro di Ajahn Mun) era venuto a stare qui. Mio padre era andato ad ascoltare il Dhamma da lui. Ero piccolo, ma il ricordo era rimasto in me e rimase per sempre nella mia memoria.

Mio padre non prese mai l’ordinazione, ma mi raccontò che era andato a porgere il suo rispetto a questo monaco dedito alla meditazione. Era la prima volta che vedeva un monaco mangiare dalla sua ciotola, mescolando tutto insieme nella ciotola dell’elemosina, riso, curry, dolce, pesce, tutto quanto. Non l’aveva mai visto fare e così si chiese che genere di monaco fosse. Me lo raccontò quand’ero molto piccolo; mi disse che era un monaco dedito alla meditazione.

Poi, mi parlò di come si ricevevano gli insegnamenti di Ajahn Sao. Non era il modo consueto d’insegnare; semplicemente diceva quel che aveva in mente. Questo era il monaco praticante che venne a stare qui un tempo. Così, quando iniziai io stesso a praticare, questo ricordo conservò sempre per me qualcosa di speciale. Quando ripensavo al mio paese, ripensavo sempre a questa foresta. Poi, giunto il tempo di far ritorno, venni a stare qui.

Invitai a risiedere anche un monaco di grado molto elevato del distretto di Piboon. Ma rispose che non poteva. Venne per un po’ e disse: “Questo non è il mio posto.” Lo disse alle persone del luogo. Un altro Ajahn venne per un po’ e poi andò via. Ma io rimasi.

A quei tempi, questa foresta era davvero fuori mano. Era lontana da tutto e vivere qui era proprio difficile. C’erano alberi di mango piantati dagli abitanti del paese e spesso i frutti maturavano e marcivano. C’erano anche le patate dolci che pure spesso marcivano sul terreno. Ma non osavo raccoglierne alcuna. La foresta era fittissima. Quando arrivavate qui con la vostra ciotola, non c’era alcun posto su cui posarla. Dovetti chiedere agli abitanti del paese di ripulire degli spazi nella foresta. Era una foresta in cui la gente non si arrischiava a entrare, ne avevano tantissima paura.

Nessuno sapeva veramente cosa facessi qui. Ci ammalammo di malaria, quasi fino a morirne. Ma non andammo mai all’ospedale. Avevamo già il nostro rifugio sicuro: affidarci al potere spirituale del Buddha e del suo insegnamento. Di notte, il silenzio era totale. Non arrivò mai nessuno. L’unico rumore che si sentiva era quello degli insetti. I kuti erano molto distanti l’uno dall’altro nella foresta.

Una notte, verso le nove, sentii qualcuno che camminava per uscire dalla foresta. Un monaco era molto malato, con la febbre alta, e temeva di morire. Non voleva morire da solo nella foresta. Gli dissi: “Va bene. Cerchiamo qualcuno che non sia malato che si prenda cura di chi lo è; come può una persona malata prendersi cura di un altro malato?” Era così. Non avevamo medicine.

Avevamo del borapet ( un’amarissima pianta medicinale). La bollivamo per berla. Quando si parlava di ‘preparare una bevanda calda ’ nel pomeriggio, non c’erano dubbi, si parlava di borapet. Tutti avevano la febbre e tutti bevevano borapet. Non avevamo altro e non chiedevamo altro a nessuno. Se un monaco si ammalava seriamente, gli dicevo: “Non temere. Non preoccuparti. Se muori, ti cremerò personalmente. Ti cremerò qui nel monastero. Non avrai bisogno di andare da nessun altra parte.” E’ così che dicevo e queste parole gli davano forza di mente. C’era molta paura da affrontare.

Le condizioni erano molto rudi. I laici non ne sapevano granché. Ci portavano plah rah (pesce fermentato, un ingrediente base della dieta locale) ma era fatto con del pesce cattivo e quindi non lo mangiavamo; io lo rimestavo e lo osservavo ben bene per vedere con cosa era fatto e lo lasciavo lì.

A quei tempi, la vita era molto dura; oggi non abbiamo questo tipo di condizioni, nessuno le conosce. Ma una certa eredità è rimasta nella pratica attuale, nei monaci di quel periodo che sono tuttora qui. Dopo il ritiro delle piogge, potevamo andare in tudong (pratica ascetica basata sul peregrinare) proprio qui all’interno del monastero. Ci incamminavamo e ci fermavamo nel profondo della quieta foresta. Di tanto in tanto, ci riunivamo, davo qualche insegnamento, e poi ognuno tornava nella foresta a meditare, camminando e sedendo. Praticavamo così nella stagione secca; non avevamo bisogno di andare in giro in cerca di una foresta per praticare, perché avevamo qui le giuste condizioni. Mantenevamo le pratiche di tudong proprio qui sul posto.

Ora, dopo le piogge, tutti vogliono andare da qualche parte. Il risultato è che la loro pratica si interrompe. E’ importante seguirla in modo stabile e sincero, in modo da conoscere i propri inquinanti. Questo modo di praticare è buono e autentico. In passato era molto più duro. E’ come il detto secondo cui noi pratichiamo per non essere più una persona: la persona deve morire per poter essere un monaco. Aderiamo rigorosamente al vinaya e ognuno ha sinceramente vergogna delle sue azioni. Quando si facevano le pulizie, si trasportava l’acqua o si spazzava il terreno, non si sentivano i monaci parlare. Mentre si lavavano le ciotole, il silenzio era totale. Ora, ci sono giorni in cui devo mandare qualcuno a dire di smettere di parlare e scoprire a cosa si debba tanto trambusto. Mi chiedo se stiano facendo a pugni; c’è così tanto rumore che non riesco a immaginare cosa stia succedendo. E dunque devo ogni volta proibire di chiacchierare.

Non so di cosa abbiano bisogno di parlare. Quando hanno mangiato a sazietà, diventano trascurati a causa del piacere. Continuo a ripetere: “Quando tornate dalla questua, non parlate!” Se qualcuno vi chiede perché non volete parlare, rispondete: “Non ci sento bene.” Altrimenti, diventate come un branco di cani che abbaiano. La chiacchiera fa sorgere emozioni e potete anche finire per fare a pugni, specialmente in quel periodo della giornata in cui si ha fame, i cani sono affamati e gli inquinanti sono attivi.

Questo è quello che ho notato. Le persone non entrano nella pratica con tutto il cuore. Ho visto le cose cambiare nel corso degli anni. Quelli che si addestravano nel passato ottenevano dei risultati e potevano prendersi cura di se stessi, ma ora sentir parlare delle difficoltà farebbe scappare le persone dallo spavento. Non è neanche immaginabile. Se rendete le cose facili, allora tutti sono interessati, ma qual è il punto? Il motivo per cui in passato siamo riusciti a ottenere un qualche beneficio è che ci si addestrava tutti insieme con tutto il cuore.

I monaci che allora vivevano qui praticavamo veramente la tolleranza al massimo grado. Capivamo le cose insieme, dall’inizio alla fine. Avevano una certa comprensione della pratica. Dopo aver praticato per un certo periodo insieme, pensavo fosse giusto mandarli al loro paese di provenienza per fondare un monastero.

Chi è arrivato dopo non può immaginare com’era allora per noi. Non so chi possa parlarne. La pratica era rigorosissima. Pazienza e tolleranza erano le cose più importanti su cui basarsi. Nessuno si lamentava delle condizioni. Nessuno diceva niente, se c’era solo riso da mangiare. Mangiavamo in completo silenzio, senza mai discutere se il cibo fosse gustoso o meno. L’unica bevanda calda era il borapet.

Uno dei monaci andò nella Tailandia centrale e bevve del caffè. E qualcuno gliene offrì un po’ da portare qui. E così una volta, abbiamo avuto del caffè. Ma non c’era zucchero. Nessuno se ne lamentò. Dove avremmo potuto trovare dello zucchero? Così potevamo dire di aver davvero bevuto del caffè, senza però poterne addolcire il sapore con lo zucchero. Il nostro sostentamento dipendeva dagli altri e volevamo essere persone facili da sostenere, dunque non chiedevamo niente a nessuno. Perciò, facevamo a meno di tutto e sopportavamo qualsiasi condizione ci si presentasse.

Un anno, i nostri sostenitori laici sig. Puang e sig.ra Daeng vennero qui per essere ordinati monaci. Venivano dalla città e non avevano mai vissuto così, facendo a meno di quasi tutto, tollerando le difficoltà, mangiando come noi, praticando sotto la guida di un Ajahn e svolgendo gli obblighi delineati nelle regole dell’addestramento. Ma ne avevano sentito parlare dal nipote che viveva qui e così decisero di venire per essere ordinati monaci. Appena ordinati, un amico gli portò caffè e zucchero. Vivevano nella foresta per praticare la meditazione, ma avevano l’abitudine di alzarsi presto al mattino e di preparare il caffè col latte da bere prima di fare qualsiasi cosa. Quindi stiparono i loro kuti di zucchero e caffè. Ma qui c’erano i canti del mattino e la meditazione e subito dopo i monaci si preparavano per andare alla questua e dunque loro non avevano tempo di farsi il caffè. Dopo un po’ cominciò a essere chiaro che le cose stavano così. Il sig. Puang camminava su e giù, pensando a cosa fare. Non aveva nessun posto in cui fare il suo caffè e non arrivava nessuno a farglielo e a offrirglielo e così finì per portarlo tutto nella cucina del monastero e a lasciarvelo.

Venire a stare qui, scoprire le effettive condizioni del monastero e il modo di vivere dei monaci dediti alla meditazione, lo buttò veramente giù. Era un uomo anziano e un parente importante per me. Si smonacò quello stesso anno; era giusto per lui, perché le sue faccende non si erano ancora risolte.

Dopo di allora, per la prima volta avemmo del ghiaccio qui. E una volta ogni tanto faceva la sua comparsa dello zucchero. La sig.ra Daeng era andata a Bangkok. Quando raccontò del modo in cui vivevamo, si metteva a piangere. Le persone che non avevano visto la vita dei monaci dediti alla meditazione non s’immaginavano com’era. Mangiare una volta al giorno faceva fare progressi o rimanere indietro? Non so come definirlo.

Nella questua, le persone facevano dei pacchettini di salsa di chili da metterci nelle ciotole in aggiunta al riso. Riportavamo al monastero qualsiasi cosa ricevessimo e la mangiavamo condividendola con gli altri. Non dicevamo mai se avessimo cose che ci piacevano o se il cibo fosse gustoso o no; mangiavamo solo per saziarci, ecco tutto. Era veramente semplice. Non c’erano piatti o tazze, tutto finiva nella ciotola dell’elemosina.

Nessuno veniva a farci visita. Di sera, ognuno andava al suo kuti a praticare. Nemmeno i cani resistevano qui. I kuti erano distanti gli uni dagli altri come pure dal luogo di riunione. Quando avevamo fatto tutto, alla fine della giornata, ci separavamo ed entravamo nella foresta per raggiungere i nostri kuti. Così, i cani avevano paura di non avere alcun luogo sicuro in cui stare. Allora, seguivano i monaci nella foresta, ma quando i monaci salivano nei kuti, i cani venivano lasciati soli e avevano paura e allora cercavano di seguire un altro monaco, ma anche quel monaco scompariva nel suo kuti.

Quindi, anche i cani non ce la facevano a vivere qui. Questa era la nostra vita di pratica meditativa. Talvolta ci ripenso: nemmeno i cani la sopportavano, ma noi ancora viviamo qui! Piuttosto drastico. E mi viene un po’ di malinconia.

Ogni genere di ostacolo… vivevamo con la febbre, ma affrontavamo la morte e siamo sopravvissuti tutti. Oltre ad affrontare la morte, dovevamo vivere in condizioni difficili come sopravvivere con un cibo povero. Ma non è mai stato un problema. Quando ripenso a quel periodo a confronto con le condizioni attuali, sono due situazioni lontanissime.

Prima, non avevamo ciotole o piatti. Veniva messo tutto insieme nella ciotola dell’elemosina. Ora, non si può più farlo. Così, se mangiano cento monaci, ci vogliono cinque persone che dopo lavino i piatti. Certe volte, stanno ancora lavando quando è ora del discorso di Dhamma. Queste cose creano complicazioni. Non so cosa fare a questo riguardo; lascio a voi di usare la vostra saggezza per riflettere.

Non c’è una fine. Quelli a cui piace lamentarsi troveranno sempre qualcosa per farlo, a prescindere da quanto buone diventino le condizioni. Il risultato è che i monaci sono diventati estremamente attaccati ai sapori e ai profumi. Certe volte, casualmente li sento parlare del loro pellegrinaggio ascetico. “Ragazzi, il cibo era veramente ottimo lì! Sono andato in tudong nel sud, sulla costa, e ho mangiato un sacco di gamberetti! E i grossi pesci dell’oceano!” E’ di questo che parlano. Quando la mente è presa da questi argomenti, è facile attaccarsi e immergersi nel desiderio del cibo. La mente senza controllo vaga e resta bloccata in quel che vede, nei suoni, nel profumo, nel gusto, nelle sensazioni fisiche e nelle idee e praticare il Dhamma diventa difficile. E’ difficile per un Ajahn insegnare alle persone a seguire il retto sentiero, quando sono attaccati al gusto. E’ come allevare un cane. Se gli date solo riso, crescerà forte e sano. Ma mettetegli per un paio di giorni del curry saporito in cima al riso e non guarderà neanche più il solo riso.

Quel che vediamo, i suoni, gli odori e i gusti sono la rovina della pratica del Dhamma. Possono causare molto danno. Se ognuno di noi non contempla l’uso dei nostri quattro beni primari, le vesti, il cibo che si elemosina, la dimora e le medicine, la via del Buddha non può fiorire. Potete osservare e vedere che quanto più sviluppo materiale e progresso c’è nel mondo, tanto più cresce la confusione e la sofferenza degli esseri umani. E se va avanti per molto, diventa impossibile trovare una soluzione. Perciò dico che quando andate al monastero, vedete i monaci, il tempio, i kuti, ma non vedete il Buddhasāsanā. Il sāsanā in questo modo è in declino. E’ facile notarlo.

Il sāsanā, cioè l’insegnamento genuino e diretto che insegna alle persone a essere oneste e rette, a nutrire gentilezza amorevole gli uni per gli altri, è andato perduto e il disordine e l’angoscia ne hanno preso il posto. Quelli che hanno condiviso con me nel passato anni di pratica hanno mantenuto la loro diligenza, ma dopo venticinque anni qui, noto come la pratica sia diventata negligente. Ora le persone hanno paura di mettersi sotto pressione e di praticare troppo. Ne hanno timore. Pensano si tratti dell’estremo dell’auto-mortificazione. In passato puntavamo su quello. Certe volte, i monaci digiunavano per giorni o per una settimana. Volevano vedere la loro mente e addestrarla: se è caparbia, la frusti. Mente e corpo funzionano insieme. Quando non siamo ancora abili nella pratica, se il corpo è troppo grasso e a suo agio, la mente perde il controllo. Quando si accende un fuoco e soffia il vento, il fuoco si propaga e brucia la casa. Succede così. Prima, quando parlavo di mangiare poco, di dormire poco e di parlare poco, i monaci capivano e lo prendevano a cuore. Ma ora un discorso del genere è sgradevole per la mente dei praticanti. “Possiamo trovare il nostro modo. Perché dobbiamo soffrire e praticare così austeramente? E’ l’estremo dell’auto-mortificazione; non è il sentiero del Buddha.” Appena qualcuno dice così, tutti sono d’accordo. Hanno fame. Cosa dirgli, dunque? Continuo a cercare di correggere questo atteggiamento, ma sembra che le cose ora stiano così.

Dunque, tutti voi per favore rendete la vostra mente forte e ferma. Oggi vi siete riuniti da diversi monasteri affiliati per dimostrarmi rispetto come vostro maestro, per ritrovarci come amici nel Dhamma, e dunque vi offro qualche insegnamento sul sentiero della pratica. La pratica del rispetto è Dhamma supremo. Quando c’è vero rispetto, non ci può essere disarmonia, le persone non litigano e non si uccidono a vicenda. Dimostrare rispetto a un maestro spirituale, ai nostri precettori e insegnanti, ci fa fiorire; il Buddha ne ha parlato come qualcosa di propizio.

Alle persone che vengono dalla città piace mangiare funghi. Chiedono: “Da dove vengono i funghi?” E qualcuno gli risponde: “Crescono nella terra.” Allora, prendono un cesto e vanno a passeggiare in campagna, aspettandosi che i funghi se ne stiano lì in fila di fianco alla strada perché loro li colgano. Ma camminano e camminano, risalgono le colline e attraversano campi, senza vedere nessun fungo. Una persona del paese è passata prima a raccogliere i funghi sapendo dove cercarli; sa in quali posti e in che bosco andare per trovarli. Ma l’unica esperienza dei funghi di quelli di città è nel loro piatto. Hanno sentito dire che crescono nella terra e si fanno l’idea che sia facile trovarli, ma non è così.

Lo stesso vale per addestrare la mente nel samadhi. Ci facciamo l’idea che sia facile. Ma, quando ci sediamo, ci fanno male le gambe, la schiena, ci sentiamo stanchi, abbiamo caldo e prurito. Allora ci scoraggiamo, pensiamo che il samadhi sia tanto lontano da noi quanto il cielo dalla terra. Non sappiamo cosa fare e ci lasciamo sommergere dalle difficoltà. Ma se riceviamo un addestramento, a poco a poco diventerà più facile.

Dunque, voi che venite qui per praticare il samadhi sentite che è difficile. Anche a me creava delle difficoltà. Mi sono formato con un Ajahn e quando ci sedevamo, aprivo gli occhi per guardare: “Oh! Ajahn è pronto a concludere la seduta?” Richiudevo gli occhi e cercavo di resistere un po’ di più. Mi sentivo come se stessero per uccidermi e riaprivo gli occhi, ma lui sembrava così a suo agio seduto lì. Un’ora, due ore, io ero in agonia ma l’Ajahn non si muoveva. Così, dopo un po’, cominciai ad aver paura delle sedute. Quando arrivava il momento di praticare il samadhi, mi sentivo spaventato.

Quando ci è nuovo, addestrarsi nel samadhi è difficile. Tutto è difficile quando non sappiamo come farlo. Questo è il nostro ostacolo. Ma addestrandosi, può cambiare. Quel che è buono può alla fine sconfiggere e superare quel che non lo è. Tendiamo a diventare pusillanimi mentre lottiamo, è una reazione normale, attraverso cui passiamo tutti. Dunque, è importante addestrarsi per un certo tempo. E’ come creare un sentiero attraverso la foresta. All’inizio, è un percorso accidentato, con molti ostacoli, ma continuando a ripassarci, puliamo la via. Dopo un po’, abbiamo tolto i rami e i ceppi e il terreno diventa saldo e liscio perché è stato calpestato ripetutamente. Allora, abbiamo un buon sentiero per attraversare la foresta.

Lo stesso vale per quando addestriamo la mente. Perseverando, la mente diventa illuminata. Per esempio, noi della campagna cresciamo a riso e pesce. Quando veniamo a imparare il Dhamma, ci viene chiesto di rinunciare a nuocere: non dobbiamo uccidere creature viventi. Cosa fare? Ci sentiamo veramente nei guai. Il nostro mercato è nei campi. Se gli insegnanti ci chiedono di non uccidere, non mangeremo. Basta questo per non sapere più dove girarci. Come ci nutriremo? Sembra non esserci via d’uscita per noi della campagna. Il nostro mercato sono i campi e la foresta. Per nutrirci dobbiamo catturare gli animali e ucciderli.

Per molti anni, ho cercato di insegnare alle persone dei modi per affrontare questo problema. Le cose stanno così: i contadini mangiano il riso. Per lo più le persone che lavorano nei campi coltivano e mangiano riso. Com’è per un sarto di città? Mangia le macchine da cucire? Mangia vestiti? Cominciamo col considerare questo punto. Siete un contadino e dunque mangiate riso. Se qualcuno vi offrisse un altro lavoro, vi rifiutereste dicendo: “Non posso farlo, non avrei riso da mangiare.”?

Siete capaci di fabbricare i fiammiferi che usate in casa? No, e come fate allora a procurarveli? Solo quelli che li fabbricano li possono usare? E le ciotole in cui mangiate? Qui nei paesi, qualcuno sa come si fabbricano? Ma le persone le hanno in casa? Dove ve le procurate?

Ci sono un sacco di cose che non sappiamo come fare, ma guadagniamo soldi per comprarle. Questo è usare l’intelligenza per trovare un modo. Anche in meditazione dobbiamo fare così. Troviamo dei modi per evitare azioni sbagliate e praticare quel che è giusto. Considerate il Buddha e i suoi discepoli. Un tempo erano esseri ordinari, ma hanno sviluppato se stessi per progredire attraverso gli stadi dall’Entrata nella Corrente fino all’arahant. L’hanno fatto attraverso l’addestramento. La saggezza cresce in modo graduale. Sorge un senso di vergogna verso l’agire scorretto.

Una volta ho insegnato a un tipo saggio. Era un sostenitore laico che veniva per praticare e prendere i precetti nei giorni di osservanza, ma continuava ad andare a pescare. Cercavo di dargli ulteriori insegnamenti, ma non riuscivo a risolvere questo problema. Diceva di non uccidere i pesci; che i pesci semplicemente arrivavano e inghiottivano il suo amo.

Ho tenuto duro, continuando a insegnargli finché non arrivò a sentire un certo pentimento. Provava vergogna, ma continuava a farlo. Poi, la sua razionalizzazione cambiò. Buttò l’amo nell’acqua e annunciò: “Qualunque pesce abbia concluso il suo kamma di essere vivente, venga e mangi il mio amo. Se il vostro tempo non è arrivato, non mangiatelo.” Aveva cambiato la sua scusa, ma il pesce arrivò e abboccò. Alla fine, cominciò a osservarli, con le loro bocche prese nell’amo, e provò pietà. Ma lo stesso non riusciva a risolversi. “Bèh, gli ho detto di non abboccare, se non era arrivato il loro momento, che ci posso fare se continuano a farlo?” E poi proseguì: “Ma stanno morendo per causa mia.” Ci pensò e ripensò, finché infine riuscì a smettere.

Ma poi c’erano le rane. Non sopportava di smettere di catturarle per mangiarsele. “Non farlo!” gli dicevo. “Osservale bene… se proprio non riesci a smettere di ucciderle, non te lo proibirò, ma per favore guardale prima di farlo.” Così, prese una rana e la osservò. Osservò il muso, gli occhi, le gambe. “Ragazzi, ma questa assomiglia a mio figlio: ha braccia e gambe. Ha gli occhi aperti, mi guarda…” Si sentì addolorato. Ma continuò a ucciderle. Le osservava tutte in questo modo e poi le uccideva, sentendo che stava facendo qualcosa di brutto. La moglie lo esortava, dicendogli che non avrebbero avuto niente da mangiare se non uccideva le rane.

Alla fine, non ce la fece più. Le catturava, ma non gli rompeva le zampe più, prima gliele spezzava in modo che non potessero saltare via. Ma ancora non riusciva a lasciarle andare. “Béh, mi prendo cura di loro, gli do da mangiare. Le allevo; non so poi quello che ne facciano gli altri.” Invece lo sapeva eccome. Gli altri continuavano a ucciderle per mangiarle. Dopo un po’, riuscì ad ammetterlo con se stesso. “Béh, in ogni caso ho tagliato del cinquanta per cento il mio kamma negativo. Le uccide qualcun altro.”

Stava quasi per ammattire, ma ancora non riusciva a lasciar andare. Continuava a tenersi in casa le rane. Non gli spezzava più le zampe, ma lo faceva sua moglie. “E’ colpa mia. Anche se non lo faccio io, loro lo fanno a causa mia.” Alla fine, ci rinunciò del tutto. Ma allora, cominciò a lamentarsi la moglie: “Cosa faremo? Cosa mangeremo?”

Era davvero in trappola adesso. Quando andò al monastero, l’Ajahn gli fece un discorso su cosa dovesse fare. Tornato a casa, la moglie gli fece un discorso su cosa dovesse fare. L’Ajahn gli disse di smettere e la moglie lo istigava a continuare. Che fare? Che sofferenza. Nati in questo mondo, ci tocca soffrire così…

Alla fine, anche la moglie dovette lasciar andare. E così smisero di uccidere le rane. Lui si mise a lavorare i suoi campi, a prendersi cura dei suoi bufali. Poi, prese l’abitudine di liberare pesci e rane. Quando vedeva dei pesci presi nelle reti, li liberava. Una volta, a casa di un amico, vide delle rane in un vaso e le liberò. Arrivò la moglie dell’amico per preparare la cena. Tolse il coperchio al vaso e vide che le rane se ne erano andate. Immaginò cos’era successo. “E’ quel tipo col cuore dedito ai meriti.”

Riuscì a catturare una rana e ne fece una pasta di chili. Sedettero a tavola e quando lui stava per immergere il suo riso nel chili, lei disse: “Ehi! Cuore dedito ai meriti! Non dovresti mangiare quello! E’ pasta chili di rana.”

Era troppo. Quanto dolore nel semplice essere vivi e cercare di nutrirsi! Pensandoci su, non riusciva a trovare nessuna via d’uscita. Era già anziano, allora decise di prendere i voti.

Preparò il necessario per l’ordinazione, si rasò la testa ed entrò in casa. Appena la moglie lo vide con la testa rasata, iniziò a urlare. Lui la supplicò: “Dalla nascita, non ho mai avuto occasione di prendere i voti. Per favore, dammi la tua benedizione. Voglio farmi monaco, ma mi smonacherò e tornerò di nuovo a casa.” Così, la moglie cedette.

Fu ordinato nel monastero locale e dopo la cerimonia, chiese al precettore cosa dovesse fare. Il precettore gli rispose: “Se stai facendo sul serio, devi andare a praticare la meditazione. Segui un maestro di meditazione; non stare qui nei dintorni delle case.” Lui capì e decise di seguire il consiglio. Dormì una notte al tempio e al mattino si mise in viaggio, chiedendo dove trovare Ajahn Tongrat (un noto insegnante di meditazione quando Ajahn Chah era giovane).

Si prese in spalla la ciotola e si mise in cammino, un nuovo monaco che non riusciva ancora a indossare proprio bene la veste. Ma riuscì ad arrivare da Ajahn Tongrat.

“Venerabile Ajahn, non ho altro scopo nella vita. Voglio offrire a te il mio corpo e la mia esistenza.”

Ajahn Tongrat rispose: “Molto bene! Tantissimi meriti! A momenti non mi trovavi. Stavo per andarmene. Dunque, fai le prostrazioni e siediti lì.”

Il nuovo monaco chiese: “Adesso che sono ordinato, cosa devo fare?”

Erano seduti accanto a un vecchio ceppo d’albero. Ajahn Tongrat lo indicò e disse: “Rendi te stesso come questo ceppo. Non fare nient’altro, solo renditi simile a questo ceppo.” Gli insegnò la meditazione in questo modo.

Poi, Ajahn Tongrat se ne andò per la sua strada e il monaco rimase lì a riflettere sulle sue parole. “Ajahn mi ha detto di rendermi simile a questo ceppo. Cosa devo fare?” Ci pensò continuamente, quando camminava, quando sedeva, quando si sdraiava per dormire. Pensò a come il ceppo era stato un seme, a come era diventato albero, e poi sempre più grande e vecchio e alla fine fosse stato tagliato e fosse rimasto solo quel ceppo. Ora che era un ceppo, non sarebbe più cresciuto, e niente sarebbe sbocciato da lui. Continuò a dibattere su questo tema nella sua mente, continuando a rifletterci, finché non diventò il suo oggetto di meditazione. Lo ampliò fino ad applicarlo a tutti i fenomeni e riuscì a rivolgersi all’interno e ad applicarlo a se stesso. “Tra un po’, probabilmente sarò come questo ceppo, una cosa inutile.”

Comprenderlo gli diede la determinazione per non smonacarsi.

La sua mente a questo punto era pacificata; le condizioni si erano messe in modo da portarlo a quello stadio. Quando la mente è così, non c’è niente che possa fermarla. Siamo tutti nella stessa barca. Rifletteteci e cercate di applicarlo alla vostra pratica. Nascere esseri umani è pieno di difficoltà. E non è così solo per noi ora, lo sarà anche in futuro. I giovani cresceranno, gli adulti diventeranno vecchi, i vecchi si ammaleranno, e poi moriranno. Continuerà a essere così, il ciclo dell’incessante trasformazione che non ha mai termine.

Il Buddha ci ha insegnato dunque a meditare. Nella meditazione, prima di tutto dobbiamo praticare il samadhi, che significa rendere la mente ferma e in pace. Come l’acqua in un bacino. Se continuiamo a introdurvi delle cose e ad agitarla, sarà sempre scura. Se permettiamo sempre alla mente di pensare e di preoccuparsi di qualcosa, non possiamo mai vedere niente con chiarezza. Se lasciamo che l’acqua nel bacino si calmi e diventi ferma, allora possiamo vedere ogni sorta di cose che vi si riflettono. Quando la mente è calma e ferma, la saggezza è capace di vedere le cose. La luce illuminante della saggezza supera ogni altro tipo di luce.

Qual era il consiglio del Buddha su come praticare? Insegnava a praticare come la terra; a praticare come l’acqua; a praticare come il fuoco; a praticare come il vento.

Praticare come le ‘cose antiche ’, le cose di cui già siamo fatti: l’elemento solido della terra, l’elemento liquido dell’acqua, l’elemento caldo del fuoco, l’elemento in movimento dell’aria.

Se scaviamo la terra, la terra non se ne preoccupa. Può venire spalata, dissodata, annaffiata. Vi possiamo seppellire quel che è marcio. Ma la terra resta indifferente. L’acqua può essere bollita o ghiacciata o usata per lavare qualcosa di sporco; non ne viene influenzata. Il fuoco può bruciare qualcosa di bello e di profumato oppure di brutto e di sudicio; al fuoco non importa. Quando soffia il vento, soffia su ogni genere di cose, fresche e andate a male, belle e brutte, senza preoccuparsene.

Il Buddha usava questa analogia. L’aggregazione che noi siamo è il semplice insieme degli elementi della terra, dell’acqua, del fuoco, del vento. Se cerchi di trovarvi una persona, non la trovi. Ci sono solo questi aggregati di elementi. Ma per tutta la nostra vita, non pensiamo mai di separarli in questo modo per vedere cosa ci sia veramente; pensiamo solo: “Questo sono io, questo è mio.” Abbiamo sempre visto ogni cosa in termini di un ‘sé’, non vedendo mai che c’è solo terra, acqua, fuoco e vento; non c’è alcuna persona. Contemplate questi elementi per vedere che non c’è un essere o un individuo, ma solo terra, acqua, fuoco e vento.

E’ profondo, vero? E’ nascosto nel profondo; le persone guardano, ma non riescono a vederlo. Siamo abituati a contemplare le cose in termini di sé e altro per tutto il tempo. E quindi, la nostra meditazione non è ancora molto profonda. Non raggiunge la verità e noi non andiamo al di là del modo in cui le cose sembrano essere. Restiamo intrappolati nelle convenzioni del mondo e restare intrappolati nel mondo significa restare nel ciclo della trasformazione: ottenere le cose e poi perderle, morire e nascere, nascere e morire, soffrire nel regno della confusione. Quello che ci auspichiamo e a cui aspiriamo non va a finire nel modo in cui volevamo, perché vediamo le cose in modo errato.

I nostri avidi attaccamenti sono così. Siamo ancora lontani, molto lontani dal vero sentiero del Dhamma. Dunque, mettetevi subito al lavoro. Non dite: “Quando sarò più vecchio, comincerò ad andare al monastero.” Cosa significa invecchiare? I giovani invecchiano quanto i vecchi. E’ dalla nascita che si sta invecchiando. Ci piace dire: “Quando sarò più vecchio, quando sarò più vecchio…” Ehi, i ragazzi sono più vecchi, più vecchi di com’erano. Questo significa ‘invecchiare’. Tutti voi, provate a osservarlo. Tutti abbiamo questo fardello; è per tutti un compito su cui lavorare. Pensate ai vostri genitori o ai nonni. Sono nati, sono invecchiati e alla fine sono morti. Ora non sappiamo dove sono andati.

Il Buddha perciò voleva che ricercassimo il Dhamma. Quel che più conta è questo tipo di conoscenza. Ogni forma di conoscenza o di studio che non sia in accordo con la via buddhista è una conoscenza che coinvolge dukkha. La nostra pratica del Dhamma dovrebbe portarci al di là della sofferenza; se non riusciamo a trascendere pienamente la sofferenza, dovremmo almeno poterla trascendere un po’, ora, nel presente. Per esempio, quando qualcuno ci parla con asprezza, se non ci adiriamo, abbiamo trasceso la sofferenza. Se ci arrabbiamo, non abbiamo trasceso dukkha.

Quando qualcuno ci parla con asprezza, se riflettiamo sul Dhamma, vedremo che sono solo mucchietti di terra. Sì, mi sta criticando, sta criticando un mucchietto di terra. Un mucchio di terra critica un altro mucchio di terra. L’acqua critica l’acqua. Il vento critica il vento. Il fuoco il fuoco.

Ma se realmente vediamo le cose in questo modo, probabilmente gli altri ci prenderanno per matti. “Non gli importa niente di niente. Non ha sentimenti.” Quando muore qualcuno, non saremo angosciati e non piangeremo, e di nuovo ci daranno dei pazzi. Dove possiamo stare?

Deve andare così. Dobbiamo praticare allo scopo di comprendere per noi stessi. Andare al di là della sofferenza non dipende dalle opinioni che gli altri hanno di noi, ma dal nostro stato mentale individuale. Non importa quel che gli altri dicono, noi sperimentiamo la verità per noi stessi. Allora, possiamo dimorare tranquilli.

Ma generalmente non andiamo tanto lontano. I più giovani vanno al monastero un paio di volte, poi tornati a casa, gli amici li prendono in giro: “Ehi, Dhamma Dhammo!” Si sentono imbarazzati e non hanno più voglia di tornare qui. Alcuni di loro mi hanno detto di essere venuti qui per ascoltare gli insegnamenti e di averne ricavato una certa comprensione, e così hanno smesso di bere e di andarsene a zonzo con la gente. Ma i loro amici li sminuivano: “Sei stato al monastero e adesso non vuoi più uscire a bere con noi. Cosa c’è che non va?” Così, si sentivano in imbarazzo e finivano per rifare le stesse cose di prima. E’ difficile restare saldi.

Dunque, anziché aspirare troppo in alto, praticate la pazienza e la tolleranza. Esercitare la pazienza e il contenimento in famiglia è già molto buono. Non litigate e lottate, e se ci riuscite, per il momento, avete già trasceso la sofferenza ed è positivo. Quando accade qualcosa, ricordate il Dhamma. Pensate a quello che le vostre guide spirituali vi hanno insegnato. Vi insegnano a lasciar andare, a rinunciare, a trattenervi, a smontare le cose; il Dhamma che venite ad ascoltare è solo per risolvere i vostri problemi.

Di quali problemi stiamo parlando? Come va con la famiglia? Avete dei problemi coi figli, coi coniugi, gli amici, il lavoro e via dicendo? Tutte queste cose vi fanno venire spessissimo mal di testa, vero? E’ di questi problemi che stiamo parlando; gli insegnamenti vi dicono che potete risolvere i problemi della vita quotidiana col Dhamma.

Siamo nati esseri umani. Deve essere possibile vivere con una mente felice. Facciamo il nostro lavoro secondo le nostre responsabilità. Se le cose si fanno difficili, pratichiamo la tolleranza. Guadagnarsi da vivere in modo retto è una sorta di pratica del Dhamma, la pratica di una vita etica. Vivere felicemente e armoniosamente è già una buonissima cosa.

Ma noi di solito sprechiamo le occasioni. Non fatelo! Se venite qui nei giorni di osservanza per prendere i precetti e tornando a casa litigate, è uno spreco. Capite quel che sto dicendo, gente? E’ uno spreco fare così. Significa che non vedete il Dhamma neanche un pochettino, non c’è alcun profitto. Vi prego di comprenderlo.

Per oggi avete ascoltato il Dhamma abbastanza a lungo.
Addestrarsi con tutto il cuore – del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Everything Is Teaching Us”
Traduzione di Chandra Livia Candiani.

fonte http://www.what-buddha-taught.net/Italian/Ajahn_Chah_Addestrarsi_con_tutto_il_cuore.htm