Prima di diventare monaco facevo l’insegnante di inglese a Bangkok. Era il 1966 e in Thailandia c’erano molte basi militari dell’aviazione americana. Uno degli insegnanti della scuola di lingue era un aviatore americano. Una volta, quando tornò dopo un’assenza di circa una settimana, gli chiesi dove fosse stato. Mi rispose: “Sono stato in un posto del nord-est della Thailandia dove la gente è così povera che mangia gli insetti”. Pensai: “Io non ci andrò mai”. Mi vedevo piuttosto come un monaco seduto in samadhi sulla spiaggia, sotto una palma, oppure in una caverna tra montagne incantevoli, impegnato nella realizzazione della verità. Ovviamente sono finito a fare il monaco nel nordest della Thailandia per dieci anni, ed è vero, laggiù mangiano insetti.

Il primo anno in monastero lo passai da solo, in una piccolo capanna. Non scambiavo praticamente parola con nessuno, meditavo soltanto. Riuscivo a seguire piuttosto bene i miei programmi. Essendo americano, alto e corpulento, mi bastava gonfiare il petto e assumere un’espressione fiera per ottenere tutto quello che volevo. Durante quell’anno arrivai a rendermi conto che ero diventato molto arrogante, con quel tipo di carattere che ha bisogno di avere dei limiti. Ero sempre stato una persona molto indipendente; ora avevo bisogno di imparare a obbedire e a far parte di una comunità. Avevo bisogno di un insegnante che non si rassegnasse al mio carattere.

Per caso un monaco del monastero di Ajahn Chah, l’unico che sapeva l’inglese, visitò il monastero dove vivevo. E finì che mi portò con sé, a conoscere Ajahn Chah. L’idea di vivere nella tradizione tailandese della Foresta mi ispirava molto, così decisi di rimanere. All’inizio ero affascinato dalla vita nel monastero e mi sentivo molto ispirato, ma ben presto iniziarono le difficoltà. La luna di miele finì, e la vecchia mente giudicante riprese il sopravvento. Prese a fare molto caldo, iniziò la stagione del monsone, e tutto diventò fradicio e maleodorante. Così cominciai ad odiare quel posto. Ricordo che sedevo pensando: “Perché sono qui?”.

Ajahn Chah amava testare la resistenza della nostra pazienza fino al punto in cui non pensavamo che ce l’avremmo fatta a resistere un altro minuto. Per me era diventato una specie di koan. Sentivo la mia voce ripetere: “Non ce la faccio più… Ne ho abbastanza. Questa è la FINE!”.

Poi ho scoperto che potevo resistere ancora. Cominciai a non fidarmi più di questo lamento isterico interiore, che dentro di me diceva continuamente: “Sono stufo, non ce la faccio più”. Da questo punto di vista lo stato monastico e le condizioni di vita che impone mi furono di grande aiuto.

Ma c’erano anche un sacco di abitudini che resistevano alla vita monastica. Essendo americano, cresciuto con un ideale di vita di libertà e di uguaglianza, mi sentivo incredibilmente frustrato, soffocato da quel sistema. Vivevo in una struttura gerarchica fondata sull’anzianità. Ed essendo il monaco più giovane, dovevo svolgere una serie di compiti per i monaci più anziani. Imparare ad accettare questi doveri e a prendere interesse al loro svolgimento fu per me una grossa sfida. C’era la parte egoista di me che avrebbe voluto vivere la vita monastica nei suoi propri termini. Avrei voluto decidere di svolgere determinati compiti solo se lo avessi ritenuto utile per me; ma nella maggior parte dei casi non era così. Sentivo dentro di me una specie di resistenza e un sentimento di ribellione.

Nello stesso tempo, c’era una continuo incoraggiamento a prendere reale coscienza di quello che stavo provando: la resistenza, la ribellione, l’atteggiamento di critica. Erano emozioni che emergevano e che potevano essere osservate durante la meditazione. Divenni consapevole della mia ostinazione, di un’immaturità che mi faceva brontolare e lamentarmi se le cose non andavano come volevo. L’enfasi era sul coltivare la consapevolezza di quello che stavo provando, così fu un periodo piuttosto interessante. Non ero certo spinto al conformismo, come se fosse un campo militare. Nessuno mi costringeva a stare in quel luogo, ero stato io a scegliere di vivere lì. Il mio impegno era di adeguarmi alla disciplina, di arrendermi alla vita monastica.

Adattarmi ad una vita monastica così rigida e tradizionalista includeva imparare a mangiare cibo che non amavo particolarmente. La gente del villaggio poteva portare piatti piccanti di curry con pollo, con pesce o con rane. E magari Ajahn Chah rovesciava tutto in una catino e mischiava. Era terribile. Oppure poteva capitare che per il nostro pasto le monache raccogliessero qualcosa nel bosco, ad esempio delle foglie. Ricordo che scrivevo a mia madre: “Vado avanti mangiando foglie”. E lei mi rispondeva con lettere molto preoccupate.

All’inizio non riuscivo a mangiare. Solo vedere il cibo mi faceva star male. Per fortuna eravamo nella stagione dei manghi, e c’erano grandi vassoi di manghi. Così riuscii ad andare avanti un mese intero nutrendomi di manghi e riso glutinoso. Ma poi la stagione dei manghi finì e io ripresi a dimagrire a vista d’occhio. Alla fine cominciai ad imparare come mangiare. E’ incredibile come possiamo adattarci bene. Incominciai a pensare che se ero in grado di mangiare quel cibo, sarei stato capace di vivere dovunque. In nessun posto il cibo sarebbe potuto essere peggiore di quello.

Qualche volta capitava che noi monaci andassimo tutti in città, nel retro di un grande carro. Poi si camminava per un giro di questua con Ajahn Chah. Era davvero una bella esperienza. Stavano tutti al bordo della strada principale, la gente aveva ogni tipo di cibo e lo versava nelle nostre ciotole. Quando le ciotole erano piene, qualcuno veniva con un grande cesto, noi versavamo il cibo nel cesto e andavamo avanti. Quando tornavamo al monastero, potevamo scegliere cosa mangiare tra quello che era rimasto nelle nostre ciotole. Era un’occasione così rara che ci faceva davvero perdere la testa. Una volta una donna mise nella mia ciotola una piccola torta. Quando arrivò il momento di versare il contenuto della ciotola nel cestino più grande, cercai di trattenere la torta nella ciotola. Non volevo che l’uomo che portava il cestino si accorgesse di quello che stavo cercare di fare, e la mia mente fu invasa da ogni genere di pensiero contorto. Era incredibile vedere con quanto sforzo e con quanta ansia cercassi di trattenere la torta. Ne ero totalmente ossessionato.

Mi scoprì anche ossessionato dai dolci. Vivendo nel celibato, ogni forma di attività sessuale è vietata. Questo limita il piacere che si può provare. Possiamo solo mangiare un pasto al giorno, spesso senza niente di particolarmente buono. Però ci sono permessi, se sono offerti, lo zucchero e il miele, come tonici. Una volta Ajahn Chah mi diede un sacchetto di zucchero. Ero così felice. Pensai: “Lo assaggio solamente”. Così aprii il sacchetto, ci infilai un cucchiaino, lo riempii e lo misi in bocca. Dopo un quarto d’ora avevo finito il sacchetto. Non riuscivo a fermarmi. A volte sognavo i dolci: andavo in pasticceria, mi sedevo e ordinavo delle torte dall’aspetto squisito. Appena ero sul punto di mangiarne una mi svegliavo.

La mente fa un sacco di scherzi. Quando si vive in una condizione in cui non si possono soddisfare tutti i propri desideri e non si può fare semplicemente ciò che si vuole, possono sorgere strane sensazioni e incredibili forme di desiderio su cose che prima non erano mai state un problema. Quando ero laico i miei desideri erano estesi su un gran numero di cose; nella vita monastica si erano tutti concentrati sullo zucchero e sui dolci. Eccomi là, un monaco che aveva ricevuto la piena ordinazione, che cercava di condurre una vita spirituale, e che si comportava come un fantasma affamato, sognando zucchero e dolci. Un altro monaco americano che aveva perfino la madre che gli spediva pacchi pieni di caramelle e di dolci al cioccolato.

Essendo il desiderio così concentrato, potevo però contemplarlo facilmente. Imparare a riflettere su questi desideri, su queste ossessioni della mente, è molto importante. E’ in queste circostanze che spesso abbiamo bisogno dei precetti per evitare di seguire le nostre abitudini o quella che è solo la via più semplice, quale che sia. I precetti ci aiutano ad osservare le sensazioni che sorgono, le nostre reazioni, e i risultati del nostro comportamento. Le restrizioni e il controllo che sono imposti dai precetti ci danno il senso del limite. Con consapevolezza riflessiva, impariamo a notare quanto forti possono essere gli impulsi e le ossessioni della mente. Possiamo vederli come oggetti mentali, piuttosto che come bisogni da soddisfare. Anche se a volte la mente urla: “Non ce la faccio più!”, la verità di tutta la faccenda è che possiamo tranquillamente farcela. Gli esseri umani hanno straordinarie capacità di resistenza. Se impariamo a esercitare un controllo su noi stessi, a non essere semplicemente trascinati dall’impeto dell’impulsività, allora iniziamo a trovare forza nella pratica. Non dobbiamo necessariamente essere schiavi delle abitudini e degli istinti.

Le molte regole della vita monastica sono basate su questo controllo. Una delle regole che all’inizio mi irritava veramente era quella che riguardava le vesti. Quando diventiamo monaci, ci viene dato un abito composto da tre vesti. Nella tradizione delle Foresta c’è l’usanza di indossare tutte e tre le vesti quando si esce per il giro mattutino della questua. Di mattino faceva molto caldo, e noi dovevamo sempre camminare parecchio, attraverso risaie e villaggi. Così, al ritorno, le vesti erano zuppe di sudore. Le vesti erano colorate con una tinta naturale di albero del pane e così, dopo un po’, la miscela di sudore e tinta di albero del pane cominciava a odorare terribilmente. Sembrava una vita incentrata sulle vesti: usare le vesti, lavare le vesti, cucire le vesti. Ma io non volevo avere una vita incentrata sulle vesti: io volevo meditare.

Trovavo tutto questo incredibilmente frustrante. Ricordo che una volta dissi a un altro monaco: “Questa di mettersi tutte le vesti è un’usanza stupida. Tutto quello che ci serve è una veste leggera, che ci copra adeguatamente. E’ molto difficile fare le nostre vesti pesanti, ci vuole tanta stoffa e usandola tutti i giorni nel caldo si deteriorano facilmente. Così dobbiamo farne altre, e questo significa più stoffa, più tinta, più cucito”. Ne feci un buon motivo per non mettermi tutte e tre le vesti, essendo la persona ragionevole che sono. Ma in realtà stavo solo piagnucolando e lamentandomi.

Il monaco raccontò tutto ad Ajahn Chah, che mi fece chiamare. Ero così imbarazzato. Improvvisamente mi apparve chiaro: perché fare un problema di tutto questo? Indossa semplicemente quelle vesti! Non vale la pena di fare queste scene. Lo posso sopportare. Non manderà in rovina la mia vita. Quello che mi sta rovinando la vita è la mia mente lagnosa, che dice: “Non voglio fare questo, questo è stupido, non ne vedo il motivo!”. Questa continua recriminazione mi stava consumando dal di dentro: affliggersi, criticare, avere opinioni rigide, stufarsi, voler andar via, rifiutarsi di collaborare, lamentarsi della vita. Questa è la sofferenza che non potevo sopportare. Mi resi conto che anche per la maggior parte della mia vita prima di diventare monaco, anche nel pieno di una vita confortevole, avevo l’abitudine di lamentarmi e di vedere le cose incessantemente con occhi critici.

Queste sono le cose che possiamo contemplare. Non possiamo controllare cosa sorge nella nostra mente, ma possiamo contemplare le nostre reazioni e imparare da questo, piuttosto che essere trascinati, impotenti, dalle reazioni istintive e dalle cattive abitudini. Anche se ci sono molte cose della nostra vita che non possiamo cambiare, possiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della vita. In fin dei conti la meditazione è soprattutto questo: cambiare il nostro atteggiamento, passare da un atteggiamento auto-centrato, del tipo di “liberati di questo oppure prendi più di quest’altro!”, a un atteggiamento di accoglienza benevola della vita in quanto tale. Per accogliere l’opportunità di mangiare cibo che non ci piace, di vestire con tre vesti in una giornata caldissima. Per accogliere il disagio, l’essere stufi, la voglia di fuggire via. Questo modo di accogliere la vita esprime una comprensione profonda. La vita è così. Qualche volta è bella, qualche volta è orribile, e la maggior parte del tempo non è né l’una né l’altra cosa. La vita è così.

La vita è così

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Federico Petrangeli

Testo adattato di un discorso pronunciato il 18 aprile 1999 presso lo Spirit Rock Meditation Centre (USA).