Uno dei malesseri più sottili e serpeggianti della nostra attuale società è dovuto a un malinteso di fondo circa la nostra reale natura di esseri umani. Partiamo tutti – o quasi – dal presupposto di essere soli. Nel bene e nel male. Soli nella lotta per la sopravvivenza, soli nell’avere diritto alle ricchezze e gioie che la vita ci dispensa come giusto compenso per le nostre fatiche, ma a volte anche soltanto per puro caso o fortuna. Il peso di questa presunta solitudine è immenso perché ci impedisce di prestare orecchio ai tanti richiami del mondo che ci circonda, da una parte, e dall’altra ai nostri valori più alti – innati, ma non sempre riconosciuti – che ci guidano verso una visione più vasta di ciò che siamo.

“Siamo tutti foglie dello stesso albero” è un concetto spesso attribuito alla tradizione orientale, ma è anche il famoso verso di una poesia di Seneca, è un concetto che illustra con semplicità ed efficacia il tipo di interrelazione che ci lega al mondo di cui facciamo parte. Il bodhissattva, nella tradizione buddista, è colui che una volta raggiunta l’illuminazione e compresa questa stretta interelazione che ci accomuna, decide di reincarnarsi sulla Terra sino a quando anche l’ultimo essere non avrà raggiunto la stessa realizzazione.

Siamo abituati a pensarci solo come foglie, non come albero; siamo abituati a concentrarci sul benessere della nostra foglia e, al massimo, di quelle del nostro ramo, considerando nemiche, perché diverse, le foglie del ramo esposto a ovest, per esempio, perché nella luce del mattino ci sembrano più scure. E questo atteggiamento ci rende chiusi, piccoli, gretti e, soprattutto, insoddisfatti. Perché la fortuna materiale è ben poca cosa rispetto…

Perché la fortuna materiale è ben poca cosa rispetto alla fortuna spirituale di sapersi parte di una immensa famiglia, una famiglia che abbraccia l’intero pianeta, se ancora non vogliamo supporre una dimensione ancor più vasta. E molti, già, se ne stanno accorgendo.

Non occorre essere buddisti, o dedicare la propria esistenza alla via monastica, per sentire fortemente il richiamo verso gli altri, per capire che non c’è vera soddisfazione, nella vita, fino a quanto non guardiamo oltre i confini del nostro piccolo orticello e non siamo un senso più vasto alla nostra esistenza facendo qualche cosa di utile anche per gli altri. “Se non io, chi per me? – è un famoso aforisma di rabbi Hillel, contemporaneo di Gesù – Se non ora quando? E – soprattutto – se solo per me, chi sono io?”.

Sono sempre di più, infatti le persone che, singolarmente o appoggiandosi a associazioni e organizzazioni, decidono di dedicare del tempo e dell’energia – in termini di presenza o in termini economici, quando la presenza non è possibile – ad attività generalmente definite come di volontariato. L’Italia, e questo sicuramente ci rende onore, sembra che sia tra le prime nazioni al mondo in quanto a impegno delle singole persone in questo senso.

Ed è proprio dalle testimonianze di tutte le persone che a queste attività si dedicano – anonime o di chiara fama, ricche o povere, semplici o dotte – che si scopre la motivazione profonda di questo agire, il segreto di questo successo silenzioso, si scopre che il sincero dono di sé viene contraccambiato con un dono ancor più grande: la consapevolezza di non essere più soli, ma di essere inseriti in un più vasto contesto di cui si fa indissolubilmente parte e allora – come il bodhissattva – come poter trascurare la foglia del ramo di fronte, se siamo entrambe parte dello stesso albero?
(Marcella Danon)