Ogni volere ha origine dal bisogno, quindi dalla mancanza, quindi dal dolore. Questo cessa con la soddisfazione, tuttavia… nessun oggetto ottenuto dalla volontà può dare una soddisfazione duratura, immutabile: esso è sempre e solo come l’elemosina che, gettata al mendicante, prolunga oggi la sua vita per rimandare a domani il suo tormento.
Perciò, finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché noi cediamo all’impeto dei desideri con il suo continuo sperare e temere, finché siamo soggetti al volere, non avremo mai né felicità né durevole riposo…
Quando, tuttavia, un motivo esterno o uno stato d’animo ci sottrae improvvisamente alla corrente infinita del volere, strappa la conoscenza dal servizio servile della volontà e l’attenzione non è più orientata verso i motivi del volere ma coglie le cose libere dal loro rapporto con la volontà, considerandole semplicemente rappresentazioni e non motivi, allora la pace, che sulla strada del volere è sempre cercata e mai raggiunta, è subentrata ad un tratto e noi stiamo perfettamente bene…
Questo stato è quello che ho descritto come pura contemplazione, fusione nell’intuizione, il perdersi nell’oggetto, oblio di ogni individualità, eliminazione del modo di conoscere conforme al principio di causa che coglie soltanto le relazioni; la singola cosa intuita si innalza all’idea della sua specie e l’individuo conoscente a puro soggetto del conoscere privo di volontà, e così entrambi non stanno più nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni.
E’ allora indifferente assistere al tramonto del sole da una prigione o da un palazzo.
(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, pp 222-223)