La meditazione può cambiare il cervello? Daniel Goleman, autore del best seller Intelligenza emotiva, dà delle risposte sorprendenti. Recenti ricerche ci dicono che il cervello è estremamente plastico, a patto che attraversiamo esperienze sistematiche e ripetute; in questo senso le pratiche meditative sembrano le migliori per trasformare le emozioni distruttive.

Nel suo libro Emozioni Distruttive, in collaborazione con il Dalai Lama, riporta le ricerche sul cervello e sulla meditazione e suggerisce una via per lavorare sulle emozioni distruttive.

Nel tuo nuovo libro, Emozioni distruttive, scrivi che “riconoscere e trasformare le emozioni distruttive è il cuore della pratica spirituale”. Puoi dirci cosa intendi con “emozioni distruttive”?

Daniel-GolemanDaniel Goleman: Esistono due punti di vista: uno orientale, l’altro occidentale. Secondo il punto di vista occidentale – quello della scienza e della filosofia moderne – le emozioni distruttive sono quelle che provocano un danno a se stessi o agli altri. E “danno”, qui, è inteso nel senso più ovvio: fisico, affettivo, sociale. Il punto di vista orientale è più sottile. La concezione buddista, così come è emersa dalle conversazioni con il Dalai Lama alla conferenza intitolata “Mind and Life” nel marzo 2000, è che le emozioni distruttive sono quelle che disturbano il proprio equilibrio interiore, mentre quelle sane favoriscono l’equilibrio della mente. In tal senso, emozioni “dannose” sono essenzialmente quelle che i buddisti definiscono klesha, o veleni, elencati nei testi classici. I klesha operano a livello grossolano – come odio, avidità, gelosia ecc. – ma anche sottile, mescolandosi ai nostri pensieri per disturbare l’equilibrio interiore.

Gli insegnamenti buddisti ci dicono che possiamo educare la mente a sostituire le emozioni distruttive con stati positivi, come l’equanimità. In che modo ciò è confermato dall’indagine scientifica?

Come riporto in Emozioni distruttive, adesso abbiamo prove estremamente convincenti del fatto che la pratica del dharma attenua le emozioni distruttive alterando profondamente il funzionamento del cervello. Il lavoro di Richard Davidson, all’Università di Wisconsin-Madison, è stato fondamentale per questa scoperta. Davidson svolge ricerche sulla meditazione, in modo intermittente, da trenta anni.

Quando eravamo studenti ad Harvard, durante gli anni settanta, entrambi svolgevamo ricerche sulla meditazione. Lui studiava gli effetti della pratica dell’attenzione, io quelli dell’attenuazione dello stress. Ma le nostre metodologie erano tanto primitive, paragonate a quelle di oggi, che non andammo molto lontano. Adesso lui sta lavorando in un campo chiamato “neuroscienza affettiva” che studia le emozioni e il cervello; inoltre, è tornato allo studio della meditazione con tecniche avanzatissime che stanno dando risultati molto persuasivi sui benefici della meditazione.

Puoi dire qualcosa su quei risultati?

Daniel Goleman: Sì, ma prima occorre un’introduzione. La ricerca di Davidson ha dimostrato che quando una persona è vittima di una forte emozione disturbante – rabbia, paura paralizzante, depressione – esiste un livello di attività insolitamente elevato nell’amigdala, una struttura a forma di mandorla localizzata in profondità nei centri emotivi del cervello. Oltre a questo, c’è un livello di attività insolitamente alto nella corteccia prefrontale destra, il centro esecutivo del cervello, situato esattamente dietro la fronte. Sembra che l’amigdala controlli quest’area della corteccia prefrontale quando siamo vittime di stati emozionali distruttivi. Quando le emozioni distruttive prendono il sopravvento, i nostri pensieri, ricordi e percezioni mutano di conseguenza, con un effetto a cascata. Per esempio, quando siamo arrabbiati, ricordiamo più facilmente cose che ci fanno arrabbiare. In altre parole, la rabbia nutre se stessa ed è più probabile che agiremo in modo da esprimere tale sentimento. Questa è una descrizione del cervello prigioniero di un’emozione distruttiva. Al contrario, quando si manifestano stati di segno opposto – per esempio, l’ottimismo, la speranza, l’allegria – l’amigdala e il lato destro sono a riposo, mentre è attiva l’area prefrontale sinistra.

Durante la giornata, in ognuno di noi esiste un rapporto preciso tra attività prefrontale destra e sinistra. Sorprendentemente, Davidson ha scoperto che tale proporzione è in grado di rivelare quello che sarà il nostro stato d’animo fondamentale durante il giorno: le persone che tendono ad avere molta più attività prefrontale destra sono maggiormente inclini agli stati d’animo negativi; le persone che hanno molta più attività prefrontale sinistra avranno probabilmente stati d’animo assai positivi, e quando si troveranno di cattivo umore, questo non durerà a lungo o non sarà molto intenso.

La meditazione è in grado di cambiare questo rapporto in meglio?

Daniel Goleman: Stai chiedendo se il cervello è plastico, cioè se è possibile plasmarlo e cambiarlo? La buona notizia è che il cervello è estremamente plastico, a patto che attraversiamo esperienze sistematiche e ripetute; la cattiva notizia è che non cerchiamo quasi mai di educare il cervello, a meno che non vogliamo imparare qualcosa di nuovo. Se impari a suonare il pianoforte, per esempio, stai rimodellando l’area corticale che presiede ai movimenti leggeri delle dita, oltre a sviluppare parti della corteccia uditiva. Se cominci a guidare un taxi a Londra, entro sei mesi la parte del tuo cervello che si attiva quando consulti una cartina – in altre parole, la tua memoria spazio-visuale – comincia a espandersi e rinforzarsi. Questo è stato dimostrato usando la MRI funzionale, a tutto’oggi il criterio aureo per stabilire le funzioni cerebrali. La buona notizia per i praticanti è che la meditazione sembra uno di quegli ammaestramenti sistematici del cervello che produce, sin dall’inizio, effetti molto benefici.

Davidson e Jon Kabat-Zinn – che ha avuto un ruolo fondamentale nell’introdurre il concetto di consapevolezza nella medicina e nella cultura – hanno collaborato a uno studio per una rivista scientifica. In questo studio, insegnavano la meditazione della consapevolezza a dei ricercatori stressati di un’azienda biotech. I soggetti praticavano circa tre ore a settimana, per otto settimane. Davidson studiava il loro cervello prima e dopo, scoprendo che prima della meditazione queste persone – in prevalenza uomini – tendevano a impiegare soprattutto il cervello prefrontale destro: si sentivano sotto pressione, tormentati, stressati, non apprezzavano più il loro lavoro. Ma dopo la meditazione della consapevolezza, Davidson ha scoperto un significativo mutamento di attività, dal prefrontale destro a quello sinistro. I soggetti tornavano ad amare il loro lavoro, vivendolo come un’avventura piuttosto che come un tormento. Il loro stato d’animo era molto, molto migliorato. È chiaro che, semplicemente cominciando a meditare, si possono provocare delle notevoli trasformazioni nel cervello.

Ebbene, la domanda è: fino a che punto possiamo spingerci? La risposta che Davidson ha fornito è solo un inizio. Uno dei primi praticanti da lui studiati è il direttore di un monastero nell’India meridionale. Egli venne portato nel laboratorio, dove cercarono di individuare, a grandi linee, il rapporto tra le sue attività prefrontali destra e sinistra. A proposito, il rapporto destra-sinistra è una curva a campana: la maggior parte delle persone tende a stare nel mezzo, mentre pochissimi si trovano agli estremi destro o sinistro. Questo particolare soggetto aveva il più alto spostamento a sinistra che Davidson avesse mai visto nel suo laboratorio. Quando Davidson chiese a un altro praticante di lunga esperienza di fare una meditazione sulla compassione, vide – e questo lo trovo molto significativo – che anche il cervello di quest’ultimo raggiungeva il più alto valore di spostamento a sinistra mai osservato. Questi e altri risultati precedenti sono tanto affascinanti che Davidson, insieme ad altri scienziati, ha avviato un programma per studiare i praticanti più esperti, persone che hanno fatto tre o più anni di ritiro intensivo.

Cosa suggerisce ciò?

Daniel Goleman: Se queste scoperte verranno confermate dagli studi successivi di Davidson, esse suggeriscono che, in termini di neuroplasticità, la pratica del dharma può spingere il cervello verso i registri superiori degli stati d’animo positivi. Se leggi il classico Abhidharma – la psicologia buddista – e i testi tradizionali, essi dicono che, più pratichi, meno dovresti sperimentare i klesha, o emozioni distruttive, e più dovresti vivere quelle positive. Ed ecco che, 2.500 anni dopo, la scienza afferma: «Hey, sembra che sia vero!».

Nel tuo libro, Davidson fa riferimento a quelli che definisce “tratti alterati di consapevolezza”. Cosa vuol dire?

Beh, un tratto alterato di consapevolezza è diverso da uno stato alterato. Nella pratica meditativa, con il tempo, è possibile avere esperienze occasionali di beatitudine, rapimento o visioni; può succedere ogni genere di esperienza piacevole. Questi sono stati alterati temporanei, destinati a svanire; quasi tutte le tradizioni buddiste fanno riferimento a essi come a epifenomeni, piuttosto che come a obiettivi in sé. Il consiglio comune è limitarsi a fare la pratica, senza soffermarsi troppo su essi. Uno dei maggiori fraintendimenti della cultura occidentale è stato fraintendere questi stati temporanei; scambiare esperienze di estasi momentanea per la realizzazione autentica. Ma la realizzazione ha a che fare con il consolidamento di quella fondamentale facoltà intuitiva che genera tali esperienze, non con gli stati di beatitudine in sé. Grazie a tale consolidamento, noi alteriamo la mente, o “cervello”, come diremmo in occidente. Raggiungere una certa stabilità vorrebbe dire acquisire quello che Davidson definisce un “tratto alterato”: in altre parole, qualcosa di duraturo. Oggi la scienza sta scoprendo che una lunga pratica meditativa ci porta verso mutamenti durevoli dell’attività cerebrale.

Poiché le emozioni negative sembrano il prodotto di millenni di evoluzione, non è piuttosto desolante contrastarle con la pratica meditativa?

Daniel Goleman: Ritengo che le recenti scoperte a favore della neuroplasticità offrano grande speranza. Sono un convinto sostenitore dei cosiddetti programmi scolastici di apprendimento socio-emozionale per bambini. Infatti, se riusciamo a insegnare ai bambini qualità di tutti i giorni come l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo e l’empatia – qualità che aiutano ad affrontare la rabbia, la paura e la depressione e che è possibile insegnare ai bambini con grande facilità – li aiuteremo a modellare il cervello in modo ottimale per il resto della vita. Noi adulti, invece, abbiamo bisogno di qualche lavoro di correzione. E la meditazione sembra assolvere bene questo compito.

Hai studiato gli effetti della meditazione sui bambini?

Daniel Goleman: No. Ma sappiamo che la meditazione modella il cervello, ed è possibile immaginare che essa dà vantaggi maggiori se praticata nei primi anni della vita, quando il cervello si forma, piuttosto che più tardi. Questo è il caso, per esempio, dei tulku, o persone che sono diventate monaci o monache da bambini. Quali effetti ciò abbia non lo sappiamo, perché non lo abbiamo mai studiato; ma siamo in grado di vedere che la meditazione può avvantaggiare molto i bambini nel modo, per esempio, con cui si relazionano alle emozioni negative. È possibile che queste persone, dall’infanzia in poi, abbiano circuiti neurali molto più efficienti nell’inibizione delle emozioni negative, perché hanno avuto il tipo giusto di allenamento mentale. Questo ci porta a chiedere cosa stia succedendo nel cervello di qualcuno che compie un ritiro di tre anni all’età di dodici o tredici anni.

Quali implicazioni ha tutto ciò nel campo della psicologia?

Daniel Goleman: Le ipotesi fondamentali alla base della psicologia sembrano oggi molto legate alla cultura di provenienza, soprattutto per quanto riguarda i limiti superiori del potenziale umano. Freud diceva che il massimo che la psicoanalisi può fare è portare le persone dalla nevrosi all’infelicità comune. Solo negli ultimi cinque anni – più o meno – gli psicologi hanno cominciato a pensare a una psicologia positiva, cioè alla sfera positiva degli stati d’animo. La maggior parte degli studi si sono concentrati sulla dimensione negativa dell’emozione. Adesso esistono psicologi che considerano l’ottimismo, l’equanimità e la felicità come aree che la gente può sviluppare. Ma quelli che potrebbero essere i limiti superiori della felicità sono ancora relativamente circoscritti; per esempio, nella psicologia non esiste nulla che possa approssimarsi all’idea buddista della sukkha, o di una felicità al di là delle circostanze, delle condizioni di vita, di uno stato interiore di appagamento a prescindere da ciò che sta avvenendo. Semplicemente, la psicologia moderna non arriva a vedere ciò.

Qualcuno dei risultati dei vostri studi collettivi è stato particolarmente sorprendente?

Una scoperta inattesa è stata che la pratica meditativa può renderti un osservatore più acuto degli stati emotivi altrui. Io l’ho trovata sorprendente, così come il Dalai Lama, quando ne ha sentito parlare. Paul Ekman, un altro scienziato presente alla conferenza “Mind and Life” è un esperto mondiale di espressione facciale delle emozioni. Ha scoperto quelle che vengono definite “microespressioni”, ovvero transitorie espressioni facciali che durano un ventesimo di secondo o meno. Esse sono completamente automatiche e inconsce, e rivelano i tuoi sentimenti autentici in un momento particolare. Ekman ha creato un test per misurare la capacità della gente a cogliere le microespressioni. Curiosamente, ha scoperto che la maggior parte delle persone che potrebbero desiderare questa capacità – come i giudici, i poliziotti o gli psicoterapeuti – non ha un valore superiore alla media. Mi pare che il gruppo che ha dato i risultati migliori siano stati gli agenti del servizio segreto. Ma quando Ekman ha cominciato a sottoporre il test a praticanti di lunga esperienza, ha scoperto che essi coglievano alcune emozioni – non tutte – con un’accuratezza del novantanove per cento. Fatto interessante, il tipo di emozioni che sapevano distinguere così bene differiva da persona a persona. Ma Ekman non si era mai imbattuto in un’accuratezza così elevata. E questo si rivelò un beneficio imprevisto della meditazione. Potrebbe essere dovuto a un affinamento generale delle percezioni o a qualche tipo di accresciuta empatia. Un principio centrale del buddismo è la compassione, e anche se non sarebbe scientifico tirare delle conclusioni in questo momento, le scoperte di Ekman sono certamente compatibili con la compassione. Di fatto, penso che l’empatia sia un suo prerequisito, quindi questa scoperta è in totale accordo con gli insegnamenti buddisti.

Nel tuo libro, il Dalai Lama dice molto chiaramente che la concentrazione in sé non è una pratica spirituale, in quanto non fa che affinare la capacità cerebrale di messa a fuoco.

Daniel Goleman: Questo è un punto chiave. Non tutte le meditazioni che trasformano il cervello sono necessariamente benefiche dal punto di vista spirituale. Doti meditative come la capacità di concentrazione possono essere, in sé e per sé, molto terrene. Gli stati meditativi cominciano a essere spiritualmente benefici quando vengono usati per sviluppare l’intuizione e la compassione. Quindi, se aumenti la capacità di concentrazione per migliorare le tua facoltà intuitive – per guardare dentro la mente – o per coltivare la compassione, va bene: il beneficio spirituale è genuino. Ma se la usi solo per diventare più bravo nelle arti marziali, non penso che ciò avrà alcun particolare beneficio spirituale. In altre parole, essa può essere usata per qualsiasi fine umano, buono o cattivo, ma senza l’elemento spirituale dell’intuizione e della compassione, l’obiettivo è completamente diverso.

La scienza può aiutare a vincere le emozioni distruttive?

Daniel Goleman: Non penso che la scienza possa inventare qualche accessorio che ci insegni un nuovo modo di praticare; riguardo a questo, sono scettico. Penso che, in ultima analisi, ognuno di noi deve fare questo lavoro da sé, interiormente. Ma penso che, nella nostra cultura, la scienza può contribuire immensamente a confermare, su basi scientifiche, che le tecniche impiegate da millenni nella pratica del dharma sono efficaci. Le scoperte scientifiche che confermano l’efficacia della pratica del dharma nell’alleviare le emozioni disturbanti potrebbero eliminare i dubbi che ostacolano l’impegno nella pratica del dharma. E potrebbero motivare e spingere le persone a lavorare più intensamente nella propria pratica. In questo senso, la scienza può essere di aiuto alla pratica del dharma. E può fare qualcosa di più che diminuire i dubbi dei praticanti del dharma: può suscitare interesse in chi non ha mai praticato, spingendolo a cominciare a meditare.

Penso che uno degli sviluppi più importanti sia il fatto che oggi, in occidente, scienziati di altissimo livello stiano facendo misurazioni avanzatissime su praticanti del dharma di lunga esperienza. Questo è diventato un campo di ricerca così importante che a settembre questi scienziati esporranno i loro risultati e le loro riflessioni a una pubblica conferenza al MIT. In una ricerca parallela, Paul Elkman, nell’Università della California s San Francisco, sta facendo esperimenti su un misto di meditazione buddista e tecniche occidentali che saranno offerte in un contesto secolare, per aiutare chiunque possa trarne beneficio. Entrambi questi sviluppi sono il risultato diretto dell’esplicita sollecitazione del Dalai Lama.

In conclusione, qual è la cosa più importante riguardo il potenziale della mente di trasformarsi e liberarsi dalle emozioni negative?

Daniel Goleman: Beh, cominciare a guardare le cose come avrebbe fatto il Buddha.

Tratto dal sito http://www.innernet.it
Originalmente pubblicato su Tricycle magazine, www.tricycle.com
Copyright originale Daniel Goleman, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.

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