Così com’è
del venerabile Ajahn Sumedho
© Ass. Santacittarama,2002. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Chandravimala Candiani.
Il seguente insegnamento è tratto dai primi due discorsi tenuti alla comunità monastica di Amaravati durante il ritiro invernale del 1988.
[…] continua dalla prima parte
Notate come nascendo, la nascita stessa ci faccia sembrare separati. Fisicamente, non siamo uniti gli uni agli altri. Con l’attaccamento a questo corpo, ci sentiamo separati e vulnerabili; abbiamo paura di restare soli e creiamo un mondo personale in cui vivere. Abbiamo una quantità di compagni interessanti: amici immaginari, amici reali, nemici, ma tutti quanti vanno e vengono, iniziano e finiscono. Tutto nasce e muore nella nostra mente. Dunque riflettiamo che la nascita condiziona la morte. Nascita e morte; inizio e fine.
Durante il ritiro, questo genere di riflessione è fortemente incoraggiata: contemplate cos’è la nascita. In questo momento possiamo dire: “questo è il risultato di essere nati: questo corpo. E’ così: è cosciente e sente, c’è l’intelligenza, c’è la memoria, c’è l’emozione”. Tutto questo può essere contemplato perché sono oggetti mentali; sono tutti dhamma. Se ci attacchiamo al corpo come a un soggetto, o alle opinioni, ai punti di vista o alle sensazioni come me o mie, proviamo solitudine e disperazione; si crea necessariamente la minaccia della separazione e della fine. L’attaccamento al mortale porta paura e desiderio nella nostra vita. Ci sentiamo ansiosi e preoccupati anche quando la vita sta andando piuttosto bene. Finché c’è ignoranza, avijja, riguardo alla vera natura delle cose, la paura finisce sempre per dominare la coscienza.
Ma l’ansia fondamentalmente non è vera. E’ qualcosa che creiamo. La preoccupazione non è che quel che è. L’amore, la gioia e tutto il meglio della vita, se ci siamo attaccati, finirà per procurarci l’opposto. Ecco perché in meditazione pratichiamo l’accettazione di queste sensazioni. Quando accettiamo le cose per quelle che sono, non siamo più attaccati. Sono solo quello che sono, sorgono e passano, non sono un sé.
Ora, come stanno le cose nella prospettiva del nostro contesto culturale? La nostra società tende a rinforzare il punto di vista che tutto è me e mio. Questo corpo sono io; io ho questo aspetto; sono un uomo; sono americano; ho 54 anni; sono un abate. Ma non sono che convenzioni. Non dico che io non sia tutto questo, ma piuttosto osservo come tendiamo a complicare tutto credendo nell’io sono. Se ci attacchiamo a queste definizioni, la vita diventa molto di più di quanto effettivamente sia; diventa come una ragnatela viscosa. Diventa complicata, tutto ciò che tocchiamo ci si appiccica. E più a lungo viviamo, più la rendiamo complicata. Così tanta paura e desiderio nasce da questo impegno dell’”io sono”, dall’essere qualcuno. Alla fine non ci porta che ansia e disperazione; la vita ci sembra molto più difficile e dolorosa di quanto in realtà sia.
Ma quando osserviamo la vita così com’è, allora va tutto bene: le gioie, la bellezza, i piaceri, sono solo così come sono. Il dolore, il disagio, la malattia sono quello che sono. Possiamo sempre cooperare con il modo in cui la vita si muove e cambia. La mente di un illuminato è flessibile e adattabile. La mente di una persona ignorante è condizionata e rigida.
Qualunque sia la cosa su cui ci irrigidiamo, ci renderà infelici. Concepire l’essere uomo o donna come una credenza permanente ci renderà sempre difficile la vita. Con qualunque categoria ci identifichiamo, la classe media, la classe operaia, essere americano, inglese, buddhista, buddhista theravadin, aggrapparsi ad ognuna di esse produrrà una qualche complicazione, frustrazione e disperazione.
Tuttavia, convenzionalmente, uno può essere tutto ciò: uomo, americano, buddhista Theravadin; ma sono solo percezioni della mente. Servono alla comunicazione; ma non sono altro che questo. Sono ciò che viene chiamato sammuttidhamma, realtà convenzionale. Quando dico: io sono Ajahn Sumedho, questo non è un sé, né una persona, è una convenzione. Essere un monaco buddhista non è una persona, è una convenzione; essere un uomo non è una persona è una convenzione. Le convenzioni non sono che quello che sono. Se per ignoranza, ci attacchiamo ad esse, restiamo vincolati e limitati. Ecco la ragnatela vischiosa! Restiamo acciecati, in quanto preda dell’illusione delle convenzioni. Lasciando andare le convenzioni, non le gettiamo via. Non devo uccidermi o smonacarmi; le convenzioni vanno bene. Non procurano di per sé sofferenza, se c’è la mente risvegliata che le vede per quello che sono: sono solo così come sono. Sono solo di utilità; opportune per il tempo e il luogo.
Con la realizzazione della realtà ultima, paramatthadhamma, c’è la libertà del Nibbana. Siamo liberi dalle illusioni del desiderio e della paura; questa libertà dalle convenzioni è il Senzamorte. Ma per realizzarla bisogna esaminare veramente cos’è l’attaccamento. Di che si tratta? Cos’è la sofferenza e l’attaccamento al processo dell’io sono? Cos’è? Non si chiede a nessuno di negare se stesso; l’attaccamento al punto di vista di non essere nessuno è ancora essere qualcuno. Non è questione di affermazione o di negazione, ma di realizzazione; di vedere. Per farlo, usiamo la consapevolezza. Con la consapevolezza possiamo aprirci alla totalità. All’inizio di questo ritiro, ci apriamo all’intero percorso di due mesi. Il primo giorno, abbiamo già accettato in piena consapevolezza tutte le possibilità: malattia e salute, successo e fallimento, felicità e sofferenza, illuminazione o totale disperazione. Non pensiamo: “avrò solo… voglio avere solo…voglio che mi accadano solo cose positive; e mi proteggo in modo da avere un ritiro idilliaco, e poter stare al sicuro e tranquillo per due mesi”. Questo è di per sé uno stato di infelicità. Accettiamo invece tutte le possibilità, dalle migliori alle peggiori. E lo facciamo consapevolmente. Il che significa: qualunque cosa accada, durante questi due mesi, fa parte del ritiro, è parte della pratica. Le cose così come sono è per noi il Dhamma: felicità e sofferenza, illuminazione o totale disperazione, tutto!
Se pratichiamo in questo modo, allora la disperazione e l’angoscia ci portano alla calma e alla pace. Quand’ero in Tailandia, attraversavo molti di questi stati negativi: solitudine, noia, ansia, dubbio, preoccupazione e disperazione. Ma, accettati così come sono, finiscono. E cosa resta quando non c’è più disperazione? Il Dhamma che stiamo osservando in questo momento, è sottile. Sottile non nel senso che è sublime, ma che è così ordinario, così qui e ora che non lo notiamo. Come l’acqua per il pesce. L’acqua fa talmente parte della sua vita che il pesce non la nota; anche se ci sta nuotando dentro. La coscienza sensoriale è qui, ora. E’ così. Non è distante. Non è in realtà difficile. Si tratta solo di prestare attenzione. La via che conduce fuori dalla sofferenza è la via della consapevolezza: attenta consapevolezza o saggezza.
Dunque, continuiamo a portare l’attenzione a come sono le cose. Se hai pensieri negativi, o provi risentimento, amarezza o irritazione, nota che effetto ha nel tuo cuore. Se inquesto periodo proviamo frustrazione o rabbia, va bene, perché abbiamo già messo in conto che possa accadere. Fa parte della pratica, è così che sono le cose. Ricordate, non stiamo cercando di diventare angeli o santi, nè di liberarci di tutte le nostre impurità e grossolanità per essere solo felici. Il regno umano è così! Può essere molto grossolano, come può essere puro. Puro e impuro fanno coppia. Conoscere la purezza e l’impurità è consapevolezza-saggezza. Conoscere che l’impurità è impermanente e priva di sé, è saggezza. Ma non appena ne facciamo un fatto personale, “oh non dovrei avere pensieri impuri”, ci blocchiamo di nuovo nel mondo della disperazione. Più cerchiamo di avere solo pensieri puri e più arrivano pensieri impuri. In questo modo possiamo star sicuri di essere infelici per tutti e due i mesi, è garantito. A causa dell’ignoranza, ci creiamo un mondo in cui possiamo solo essere infelici.
Dunque, nella consapevolezza o nella piena presenza mentale, felicità e infelicità hanno lo stesso valore: nessuna preferenza. La felicità è fatta così. L’infelicità così. Sorgono e svaniscono. La felicità resta felicità, non è infelicità. E l’infelicità resta infelicità, non è felicità. Ma è così com’è. Ma non appartiene a nessuno ed è tutta lì. E non ne soffriamo. La accettiamo, la conosciamo e la comprendiamo. Tutto ciò che sorge svanisce. Ogni dhamma è non sé.
Vi offro questo tema di riflessione.
Questo discorso è stato tratto da una antologia di insegnamenti di discepoli occidentali di Ajahn Chah, “Seeing the Way”, in corso di traduzione in italiano per future pubblicazioni.