Spero che questo ritiro vi abbia offerto incoraggiamento, comprensione e ispirazione per proseguire nella pratica meditativa. Ho sottolineato ripetutamente l’importanza della fiducia nella vostra capacità di essere presenti, il senso profondo dell’investire di fede il semplice atto di essere attenti e presenti, e in ascolto, aperti e ricettivi.

Il condizionamento è una traccia molto forte innestata nella nostra personalità, e i suoi punti di forza sono il senso dell’io o della personalità. È da qui che nasce la tendenza a essere autolesionisti, a vederci in una maniera molto ristretta che ci vincola rigidamente a dei limiti, di modo che ci sentiamo scoraggiati o riversiamo nella pratica le nostre paure, limitandone così i risultati.

Nella letteratura buddhista, si parla spesso del raggiungimento di certi stati meditativi, dell’ottenimento dei jhana: raggiungere il primo jhana, e poi il secondo jhana, e il terzo, e il quarto jhana. Ci sono persone che passano anni cercando di ottenere questi jhana, e restano delusi.

E leggiamo anche di cose come l’”entrata nella corrente”, il “tornare una sola volta”, “non tornare mai più” e infine l’illuminazione totale. Avete già ottenuto il primo jhana? Siete entrati nella corrente? È un modo di pensare mondano, che vede me come una persona seduta qui, un’altra persona seduta lì, entrambi intenti a praticare la meditazione sperando di ottenere qualcosa, di raggiungere un qualche stadio. E bisognerebbe essere capaci di farlo. Io vengo da una cultura in cui vige il concetto del ‘lavorare a qualcosa’, e più lavori, più duramente lavori e più devi venir ricompensato per il tuo strenuo lavoro, il duro lavoro va pagato.

Nella letteratura buddhista, si parla anche degli arahant, quelli che hanno superato tutti gli esami e sono andati al di là di tutte le astrazioni e hanno raggiunto il supremo ottenimento. Diventare un arahant sembra uno scopo quasi impossibile, che non ci aspettiamo di raggiungere, perché la maggior parte di noi è troppo limitata dalla personalità e dai propri problemi, ovviamente insignificanti, per sperare di poter mai raggiungere un simile stadio. È un problema anche nei paesi buddhisti, perché spesso le convenzioni si discostano parecchio dal significato originario quando vengono tramandate dopo la morte del fondatore della religione.

Anche alla parola nibbananirvana attribuiamo il significato di illuminazione, di supremo raggiungimento: un termine remoto ed enigmatico di cui quasi nessuno conosce il significato. C’è un gruppo rock di Seattle che si chiama Nirvana: dunque, se volete un assaggio del nirvana, andate a Seattle!

Esplorando l’uso del linguaggio, scopriamo come ci rapportiamo a questo genere di parole: come a qualcosa di molto alto, di molto remoto, di lontanissimo da noi. È il modo di pensare mondano, pensare in termini di io che divento qualcosa, io devo liberarmi di tutte queste debolezze, dei miei problemi emozionali; ho certi attaccamenti, amo la mia famiglia, dovrò liberarmi dal desiderio, essere libero dal sé e diventare nessuno, essere un non-sé, un nulla, un vuoto, tutto in una sola vita, per poter ottenere il nirvana.

Riflettiamo sulle opinioni che ci creiamo e su come parole come nirvanaarahant, Buddha diventino delle mete irraggiungibili. Nella nostra pratica semplicemente notiamo le cose come sono. Non cerchiamo di rappresentarcele in accordo con la ragione e con la logica, da un punto di vista mondano, ma cominciamo a risvegliarci all’osservazione di come reagiamo, di cosa proviamo riguardo alle parole, al linguaggio e ai concetti che usiamo. Per esempio, prendiamo l’idea del primo jhana e così via… o dell’ottavo jhana. Già raggiungere il primo è una battaglia; raggiungere l’ottavo sembra quasi impossibile secondo il nostro modo di pensare perché lo vediamo come un ottenimento. Ma non siamo qui per ottenere, né per raggiungere.

Dunque, anziché usare parole come ottenere, raggiungere, diventare, è meglio usare termini come abbandonare e lasciar andare, perché rappresenta meglio la nostra pratica. Più che raggiungere qualcosa lasciamo andare quello a cui siamo attaccati, nel momento in cui comprendiamo la sofferenza che creiamo attraverso l’attaccamento.

La pratica dei jhana, in realtà, si basa sul superamento dei cinque impedimenti (i cinque nivarana, n.d.t.), i cinque stati negativi, e la coltivazione di percezioni salutari, affinandole attraverso la concentrazione fino a giungere al benessere fisico e mentale e infine all’equanimità.

Riprendendo la divisione tradizionale della meditazione in samathavipassanasamatha è felicità creativa e comprensione, positività e gioia, mentre vipassana è investigare la sofferenza e le sue cause, e lasciar andare le cause. Ricordo quando cercavo di coltivare la meditazione di samatha come un ottenimento; ero determinato a ottenere questi stati mentali desiderabili, ma il mio atteggiamento era di fondo un atteggiamento di forza caparbia, che non è il genere di condizione mentale che permette di realizzarli.

Le persone che trovano la meditazione di samatha facile e naturale sono di solito persone che hanno molta fede, che non si fanno domande e non hanno dubbi, oppure persone ben educate, che non pensano troppo ma hanno molta fiducia in quello che dice l’insegnante. Dunque la pratica di samatha risulta più facile per persone che non siano molto scettiche, sospettose e paranoidi come invece sono io. All’inizio la trovavo impossibile, perché il mio approccio alla vita era fondamentalmente negativo, ero una persona molto critica. Mi era più facile rapportarmi alla vipassana, perché la sofferenza la potevo vedere; sicuramente io soffrivo, non c’era dubbio che ci fosse sofferenza. La meditazione vipassana è un mezzo abile tanto quanto samatha, che è un mezzo per allietare la mente, per ispirarla, per elevarla.

Ricordo che nei primi sei anni di vita monastica mi dedicavo molto alla pratica; ero disposto a lavorare duramente, a stare seduto per ore praticando tutte le tecniche. Da un certo punto di vista imparai molto, ma non c’era nessuna gioia né felicità nella mia vita perché nel tentativo di raggiungere qualcosa, ero molto auto-centrato, mi sentivo tanto ‘me’. Mi trovavo in Thailandia, dove c’era un insegnante della statura di Ajahn Chah, dove la società era molto rispettosa e di grande sostegno; la gente mi dava tutto quello di cui avevo bisogno, cibo, riparo, vesti, ma nonostante tutto questo aiuto e incoraggiamento i miei primi sei anni furono anni di duro lavoro e di grande sofferenza. Ero disposto a soffrire e sicuramente non me ne rammarico, ma in realtà non ero felice della mia vita, era un’esistenza ancora priva di gioia.

Dopo sei anni partii per l’India in pellegrinaggio. Poiché noi bhikkhu non portiamo denaro dovevo unirmi ai mendicanti, e vissi così per cinque mesi in India, visitando i luoghi sacri del buddhismo. Fu durante quei cinque mesi che cominciai a riflettere sulla mia vita spirituale, e penso che mi abbia aiutato il fatto di trovarmi nei luoghi sacri del buddhismo. Quello che accadde fu che finalmente cominciai a provare un’enorme gratitudine per Ajahn Chah, per tutto il sostegno e l’incoraggiamento che avevo ricevuto per anni. E provai un’enorme gratitudine anche per il Buddha, per il Buddha storico. Questo sentimento di gratitudine cominciò a portare nella mia vita una diversa qualità, una sorta di sensazione gioiosa, perché fu attraverso la gratitudine che sperimentai un’apertura del cuore; non stavo più lì a faticare con la mia forza di volontà e la mia personalità, era una sensazione di sincero apprezzamento per tutte le cose buone della mia vita. Fu una vera svolta nella mia crescita spirituale.

continua parte 2

Come essere niente

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Samira Coccon e Chandra Candiani
Discorso tenuto a Morlupo nel novembre 1999.