Prima era come se l’apprezzamento per gli insegnamenti buddhisti venisse dalla testa: era molto intellettuale, teorico, come se non avesse ancora raggiunto il cuore, malgrado il mio grande interesse e la grande fiducia. Allora, dopo questa esperienza di gratitudine che per me fu un’apertura del cuore, cominciai a comprendere veramente samatha, in termini di esperienza concreta, l’esperienza di un cuore luminoso, di un cuore felice, la presenza della contentezza nel cuore. Poi tornai in Thailandia, e tornai per stare veramente con Ajahn Chah. E cominciai a sentirmi molto contento, davvero felice della mia vita, cominciai ad amare sinceramente la vita monastica, i monaci intorno a me e la società. Cominciai a rapportarmi alle cose con maggior apprezzamento, e con un amore che, per quanto ricordi, non avevo mai provato nella mia vita.

Con questo sentimento più positivo, con questa gratitudine e contentezza, trovai molto facile concentrare la mente, non era più un problema. Samatha come cosa astratta che cerchi di ottenere, partendo dal primo stadio, per poi passare al secondo e così via non aveva funzionato per me. Cominciò a funzionare solo cambiando di livello. Per quanto riguarda la meditazione vipassana, che esplora le Quattro Nobili Verità, non comportava più una specie di ossessione per la sofferenza, ma un maggiore interesse per la mia sofferenza personale, un desiderio di comprenderla. Così, anziché pensare: “Devo capire la sofferenza” per liberarmene, che è un modo di pensare piuttosto cupo, cominciai a dare il benvenuto alla sofferenza come qualcosa da cui imparare, come un’opportunità; e a sentirmi grato per la sofferenza della mia vita, perché mi dava l’occasione di comprenderla.

Quando feci ritorno in Thailandia decisi che volevo fare qualcosa per dimostrare la mia gratitudine ad Ajahn Chah. Non c’era niente di cui avesse bisogno, non avevo denaro per comprargli un regalo; cosa gli sarebbe potuto piacere? Cosa avrebbe potuto apprezzare veramente? Pensai che avrebbe apprezzato che io fossi un buon monaco, un monaco utile, qualcuno che non andasse ad aumentare il suo fardello, nel senso di creare più complicazioni al monastero, ma che praticasse e approfondisse la vita monastica. Anche questa ispirazione, questo desiderio di ripagare il debito che sentivo mi portò molta gioia, non era un compito pesante, provai molta felicità nell’assumermelo. Il resto della mia vita monastica ne fu influenzato moltissimo, perché l’apprezzamento per tutto quello che avevo ricevuto mi aiutò a stare veramente in contatto con la mia sofferenza, i problemi, le difficoltà, il mio kamma, le sfide da affrontare, mi diede la forza per far fronte, in certi periodi, a esperienze molto spiacevoli e indesiderate.

Per tornare ai vari stadi dell’illuminazione, sotapanna, sakadagamin, anagamin, arahant, come porsi di fronte a tutto questo? Che significato ha? E come usare questi termini? All’inizio li consideravo come gradi di avanzamento personale, poi mi sembrò impossibile considerarli in quell’ottica personale.

All’inizio li immaginavo un po’ come diplomi di laurea. Ma poi, riflettendo su questi stadi, come per esempio l’”entrata nella corrente” o sotapanna, mi pare che il termine si riferisca al venir meno dei primi tre impedimenti in una serie di dieci. Il primo è definito come sakkayaditthi, ossia la visione centrata sul sé o la personalità; il secondo è l’attaccamento alle convenzioni religiose o il pensiero superstizioso; il terzo è il dubbio, la tendenza a dubitare. Sono aspetti molto interessanti da investigare, da conoscere dentro di sé, ecco perché si insiste su sakkayaditthi, che è il modo in cui vediamo la nostra personalità. Io incoraggio a investigare la personalità, non in modo critico, ma per conoscere quando diventiamo una persona e quando non c’è persona. E naturalmente l’assenza di persona è in relazione al suono del silenzio, al vuoto della mente in cui ci si può sintonizzare su questa sorta di squillante silenzio e sostenervi l’attenzione, su cui si può riflettere e cominciare a riconoscere l’esperienza della vacuità, o non-sé. Quando sostieni l’attenzione concentrandola sul silenzio, allora c’è piena consapevolezza, sei conscio, sei sveglio, non sei in trance, sei qui e ora, in quel momento non c’è il senso del sé, non c’è Ajahn Sumedho, non c’è nessuno, nessuna persona, è l’esperienza della vacuità, di anatta, il non-sé.

Quando lo dimentico, se perdo questo silenzio, allora “divento”, divento di nuovo Ajahn Sumedho, una persona che pensa a qualcosa, che si preoccupa di qualcos’altro, che ha ogni genere di obblighi o di difficoltà con la tale persona o la tal altra situazione, ritorno a tutto questo, sono qualcuno, ho dei problemi, sono attaccato ai miei problemi, penso a me stesso e credo a tutto questo.

Posso esplorare, posso intenzionalmente entrare nel silenzio, ho fiducia in questo silenzio e posso prenderlo come oggetto di riflessione. Non è un silenzio ottuso, in cui mi annullo, è un silenzio vigile, un silenzio vivo. D’altro canto posso pensare di essere Sumedho, l’abate di Amaravati, e posso accorgermi quando vengo intrappolato in me stesso come persona, posso vederlo, posso essere consapevole di quando sto creando qualcosa nella mia mente. Talvolta sento che voglio veramente essere una personalità, non voglio essere vuoto. Si tratta di esplorare il sé, non prendendo posizione contro il diventare una persona o l’avere una personalità, ma essendone consapevoli, piuttosto che cercare di liberarsene. Non si tratta di liberarsi della personalità, ma di non permettere più alla personalità di ingannarci.

Il mio incoraggiamento è di usare l’investigazione per vedere consapevolmente, per conoscere intuitivamente e profondamente il vuoto, il silenzio, il non-sé. Cominciare a scoprirlo, a conoscerlo, ad averne fiducia. In questo modo, si può veramente vedere come creiamo la nostra sofferenza, come creiamo noi stessi, i nostri problemi e il mondo in cui viviamo. Nella terminologia buddhista, con ‘mondo’ non si intende il mondo in senso fisico ma quello in cui viviamo: i pensieri, i sentimenti, le percezioni a cui siamo attaccati, questo è il mondo di cui facciamo esperienza. Una volta pensavo che tutti vivessero nel mio mondo, ma non è così, viviamo ognuno in un mondo diverso.

Il secondo impedimento è chiamato in pali silabbataparamasa, l’aggrapparsi alle convenzioni. Per esempio, in quasi tutte le tradizioni religiose si parla di purificazione spirituale, si crede che bagnarsi in un fiume purifichi i peccati o che pregando continuamente si purifichi la propria vita. Il credere che queste cerimonie possano purificarci è silabbataparamasa. È come pensare che aderendo al buddhismo, aggrappandosi a una convenzione, si possa diventare puri. Cominciamo ad accorgerci che in uno stato di vuoto o di silenzio non c’è convenzione; il silenzio non è buddhista né cristiano, non è niente, non ha nome, è fuori da qualsiasi convenzione.

Allo stesso tempo ci si comincia ad accorgere che silabbataparamasa è anche un’opinione o una credenza del tipo: “Io non credo al Buddha”, “Io non credo in queste religioni diverse”. Avendo più fiducia nel silenzio e nella vacuità del presente, possiamo vedere ogni genere di punto di vista o di opinione che abbiamo sul buddhismo, sulla religione, o su qualsiasi altra cosa. Non è che ci sia qualcosa di sbagliato nell’avere punti di vista e opinioni, ma l’attaccamento cieco è silabbataparamasa. Sono silabbataparamasa anche le opinioni settarie del tipo: “Il Theravada è l’unica vera via, le altre no”. Ci si può accorgere di tutto questo. Una volta ero molto sicuro delle mie opinioni, ero molto dogmatico; gli americani vengono educati al dogmatismo. Dunque so bene come si possa essere attaccati alle opinioni, e che il risultato è la sofferenza.

C’è poi vicikiccha, il dubbio. Il dubbio è il risultato del pensare: più pensi, più dubiti, dunque se sei attaccato al pensiero, se cerchi di risolvere qualsiasi cosa pensandoci su, non potrai mai sentirti sicuro. Trovo il dubbio molto utile. Quando entri nel silenzio della mente, nella vacuità, non c’è pensiero, non c’è dubbio. Ma poi cominci a chiederti: “Questo silenzio è veramente l’Incondizionato?”. E stai di nuovo dubitando. Noi possiamo ascoltare e osservare, per questo vi dico di aver fiducia nel silenzio, di imparare ad averne fiducia. Dopo, potete anche dubitare, ma vi accorgerete che il dubbio è qualcosa che create col pensiero: “Sto praticando nel modo giusto? Questo è veramente anatta? O me lo sto solo inventando? Ma Ajahn Sumedho sa quello che dice?”. Potrete accorgervi così che il dubbio si crea attraverso il processo del pensiero, che state creando il dubbio.

Dunque, vicikiccha, silabbataparamasa, sakkayaditthi sono tre impedimenti, e potete cominciare a vedere perché siano tali. Fin quando siete coinvolti nella personalità come se fosse una realtà, o siete ancora attaccati e limitati dalle convenzioni, o cercate, senza tregua, di capire le cose in modo intellettuale, rimanete intrappolati nell’incertezza, nella titubanza, in un senso di fallimento, di non approdare da nessuna parte, di non sentire mai di avere quello che meritate.

A questo punto potremmo pensare: “Allora devo essere un sotapanna, perché tutto questo non è più un problema per me”, ma sembra di nuovo un punto di vista della personalità. Se non sento la necessità di descrivere me stesso in alcun modo, allora il problema cade. Ecco perché con la pratica non si diventa mai niente, in questo tipo di pratica non si raggiunge niente. Dunque, rinunciate a questa speranza. Quello che si impara è che non siamo niente ed è un vero sollievo.

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Come essere niente

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Samira Coccon e Chandra Candiani
Discorso tenuto a Morlupo nel novembre 1999.

Bibliografia Ajahn Sumedho

Consapevolezza intuitiva – Ajahn Sumedho -Astrolabio Ubaldini