SUPPONGO CHE quando ci avviciniamo alla pratica spirituale ci sentiamo tutti almeno un po’ insoddisfatti di ciò che ci può offrire il mondo.

Abbiamo provato una certa quantità di gratificazioni che riguardano il regno dei sensi, ma ci accorgiamo che queste non soddisfano una necessità interiore più profonda; quindi per trovare qualcosa che possa esaudire questo bisogno interiore, incominciamo la pratica spirituale. In realtà, si tratta d’un desiderio ancora più profondo, un desiderio spirituale, di pace e di stabilità; forse una pace che può arrivare solo attraverso la comprensione di ciò che ci rende irrequieti. Abbiamo tutti provato vari livelli di felicità e di pace, ma passano tutti, proprio tutti, e nel loro passare ci lasciano con un senso d’insoddisfazione e di disagio nei confronti del mondo, della nostra situazione, della nostra vita così com’è.

E’ questo che ci fa continuare a cercare qualcosa di più radicale, qualcosa che prometta un sollievo durevole da dukkha; è proprio questo ciò che il Buddha promette quando parla dei suoi insegnamenti e di ciò che ha scoperto in merito alla liberazione. In uno dei suoi discorsi più noti dice:

“C’è il Non-nato, il Non-originato, il Non-creato, il Non-condizionato; se non fosse per questo Non-nato, Non-originato, Non-creato, Non-condizionato, non ci sarebbe via d’uscita dal nato, dall’originato, dal creato, dal condizionato. Ma poiché c’è questo Non-nato, Non-originato,Non-creato, Non-condizionato, allora c’è una via d’uscita dal nato, dall’originato, dal creato, dal condizionato.”

Parla della nostra realtà psicologica, di ciò che creiamo e che percepiamo come nostro mondo interiore e come mondo esterno: di fatto, ognuno di noi è un mondo di esperienze a sé, che attraversa altri mondi di esperienze, di condizioni karmiche, che entrano in relazione fra di loro.

Il Buddha ci esorta ad esaminare il mondo nel quale ci troviamo, le nostre esperienze personali, il modo in cui accogliamo in noi stessi il mondo. E il mondo è ciò di cui facciamo esperienza attraverso i sensi: gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, il corpo e la mente (coscienza discriminante) come sesto senso. Pensandoci bene, non c’è niente al mondo che non sperimentiamo attraverso questi sei sensi. Il Buddha ci porta a visitare queste porte sensoriali, a comprendere il mondo e la nostra esperienza, perché solo attraverso questa comprensione abbiamo la possibilità di iniziare ad apprezzare il Non-nato, Non-creato, questo Immortale, questo rifugio ultimo all’interno della nostra esperienza personale. Il Buddha adotta un atteggiamento mentale che porta alla conoscenza delle cose che sono di ostacolo al raggiungimento di una pace definitiva, arriva a conoscerle così a fondo da poterle far cadere, abbandonare, lasciare andare; senza identificarsi con questi ostacoli che non sono chi e che cosa siamo.

Iniziare ad esaminare la nostra esperienza, esaminare quali sono gli ostacoli all’Immortale, è una ardua impresa, principalmente perché molto di questo può essere doloroso e la risposta naturale, la nostra reazione, è quella di fuggire dal dolore, di liberarcene.

Ebbene, questo succede perché la nostra comprensione non è corretta. Cerchiamo la pace e la felicità, ma siamo abituati a cercarla respingendo ciò che è ostile o che non conduce alla felicità. Quindi, per iniziare a rivolgerci verso ciò che sentiamo ostile o causa di dukkha, ci vuole un certo esercizio della mente e del cuore – ecco perché il Buddha ha messo dukkha al primo posto nei suoi insegnamenti. “Io insegno dukkha e la fine di dukkha”, queste due cose sono congiunte, vengono insieme – solo se arriviamo a comprendere il nostro dolore, il nostro modo di reagire, possiamo fare esperienza di ciò che è oltre dukkha.

Dukkha: una causa per il manifestarsi della fede

Ho parlato di questo, perché la contemplazione di dukkha è la parte più importante della mia pratica. Qualcuno ritiene che questo approccio sia molto pessimista, e a volte può sembrarlo (tutti attraversiamo periodi piuttosto pessimisti e anche periodi ottimisti), ma è anche un approccio realistico, si tratta della nostra esperienza concreta.

Si tratta, in realtà, di una tecnica che ci riporta pienamente nel momento presente. Abbiamo la tendenza a disconoscere molto di quello che proviamo, non abbiamo sviluppato la capacità di sopportarne il dolore, non abbiamo la fiducia necessaria per sentire veramente ciò che proviamo – e per ‘fiducia’ intendo quello che Buddha chiama saddha: fede, fiducia, responsabilità. Per potere veramente fare esperienza di ciò che accade, per essere pienamente presenti, abbiamo bisogno di saddha, perché con la presenza mentale lasciamo andare i soliti attaccamenti al passato e al futuro, lasciamo andare la presa sul nostro mondo e sulla nostra vita. Lasciamo andare il fatto di cercare con tutte le nostre forze di renderci la vita comoda, sopportabile, felice; lasciamo andare la tendenza a volere creare il nostro mondo, a tenere le cose sotto controllo e ad evitare la sofferenza.

Essere pienamente presenti nel momento significa che abbiamo veramente lasciato andare quell’abitudine mentale, quell’energia del ‘divenire’, quella sensazione di proiettare se stessi nel futuro – che può essere l’attimo successivo o l’ora successiva o il solito pensiero di quello che farò domani o di quello che potrebbe succedere tra dieci anni. Andando avanti nella meditazione tutti noi possiamo fare esperienza di momenti di piena presenza mentale e riconoscere la pace di quel momento, ma la difficoltà sta nel sostenerla e nell’evitare che creazioni concettuali e nozioni dualistiche del tipo ‘io’ e ‘il mondo’ la blocchino.

Non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nell’io e nel mondo, si tratta piuttosto dell’ignoranza che accompagna l’abitudine di fare proiezioni mentali, si tratta dell’attaccamento alle proprie idee che ci fa restare nel buio e nella creazione ciclica del dolore. Finché non ci saremo liberati da questa ciclicità, non potremo fare l’esperienza di quella completa e piena liberazione che il Buddha afferma possibile e disponibile. Così praticare significa continuare a trovare modi per rompere questa ciclicità, per sostenere i vuoti del divenire, per accrescere la nostra fede, accrescere la nostra fiducia.

In una raccolta d’insegnamenti il Buddha descrive dukkha come una condizione perché si manifesti saddha, che è questa fede, fiducia. Dobbiamo portare la nostra consapevolezza verso quel punto di dukkha, d’insoddisfazione presente nel momento e sviluppare la consapevolezza conoscitiva; è questa la situazione nella quale si può iniziare a trovare la liberazione da dukkha.

Inevitabilmente dukkha e’ doloroso perché noi siamo legati a quell’esperienza, ci combattiamo, ci identifichiamo, e c’è un certo grado di attività inconscia che ci tiene vincolati, e questo sia nel caso di un dolore fisico, mentale o emotivo che ci può capitare di provare, sia che si tratti di grandi traumi o soltanto di piccole cose.

Proprio come nella meditazione, quando ad esempio ci troviamo coinvolti in un flusso di pensieri o quando stiamo solo osservando come è la nostra mente quando si sente intrappolata, bloccata, legata o in difficoltà – qualsiasi percezione dell’’io’ è limitante, vincolante e implica una sensazione di dolore. Dobbiamo arrivare al punto di essere pienamente coscienti di questo e iniziare a conoscerlo così com’è.

Significa che, come prima cosa, forse dobbiamo entrare proprio nel cuore della lotta, cosa difficile da fare perché spesso siamo portati a dare giudizi del tipo: “Questo non è giusto, il sentiero non è questo, dovrei essermi liberato di queste cose”. Però questi non sono pensieri coscienti, sono solo atteggiamenti, supposizioni mal celate. Dobbiamo cominciare a vedere: “Che relazione ho con questa lotta che sta avvenendo?”, dobbiamo cominciare a sentirla veramente, esserci dentro e riconoscere che questo è dukkha, questo è dolore, questa è la sensazione; questa è la scontentezza, questo è il dispiacere, questa è la rabbia.

Di qualsiasi cosa si tratti, lasciamo che la nostra consapevolezza sia abbastanza grande da poterla contenere, da poterla sostenere. Possiamo accorgercene quando succede; il cuore si può espandere per contenere il dolore. Se non si può espandere per contenere quel dolore, allora continueràad esserci una lotta, un legame stretto, un legame non-aperto a quell’esperienza, che può essere ricacciata nell’inconscio o rifiutata, o che può essere espressa pienamente, ma che ancora ci tiene legati e alla quale restiamo ancora aggrappati.

Ognuno di noi deve trovare un modo, il suo modo personale, per aprirsi a questa lotta. Questa si può sentire direttamente nel corpo, come un nodo di forte tensione. Per rimanere rilassati lasciate che ci sia consapevolezza di quel nodo; sembra una contraddizione in termini, ma significa rimanere rilassati con quella tensione, non combatterla, non lottare con il dolore e in questo modo possiamo arrivare a fare l’esperienza di una relazione tranquilla con la sensazione dolorosa. Non sappiamo quanto tempo ci vorrà. Ci può succedere di avere consapevolezza di un’emozione difficile ed essere terribilmente frustrati perché non cambia! Per questo è necessaria una verifica costante del nostro atteggiamento, chiedendoci: “Come mi pongo nei confronti di questa esperienza?”.

Solo essere pronti a sentire l’esperienza così com’è, senza favorirla o contrastarla, e a un certo punto ci sarà una liberazione, un’apertura, e ‘il mondo’ cambierà: essa scompare, non porta più quel senso del ‘sé’ e con esso il senso del ‘mondo’, di ‘me e gli altri,’ ‘passato e futuro,’ ‘bene e male,’ ‘giusto e sbagliato.’ Si imparerà a conoscere ciò che è trascendente per il Buddha.

In quel momento, tutte le costruzioni mentali che ci siamo create sul nostro modo di relazionarci all’esperienza possono svanire e questo fa sentire il sapore dell’Immortale. Ma dobbiamo riconoscerlo apprezzarlo, può anche sfuggirci. Possiamo saltare da una forma di attaccamento ad un’altra e quando qualcosa cessa, rimanere attaccati al piacere che ne deriva: “Oh, sono contenta che sia finita!”, oppure, quando ci capita qualcosa di bello, possiamo attaccarci a un senso di orgoglio per ‘quello che io ho ottenuto’. Quindi, ci deve essere coerenza nella consapevolezza: nella consapevolezza dell’atteggiamento mentale, della lotta, dell’attaccamento. Se stiamo sviluppando la consapevolezza del corpo, questi atteggiamenti li possiamo sentire a livello fisico.

Forse questa è l’esperienza di cui parlava il Buddha quando disse che dukkha può essere una condizione per l’insorgere di saddha o della fede. Più facciamo esperienza di questo modo di rivolgerci a dukkha, di aprirci sostenendolo incondizionatamente, di vederlo passare o di vedere la liberazione che arriva attraverso dukkha, più si alimenta il senso di fiducia, “Ah sì, funziona, è questo il modo”. Ed è allora che sorge questo senso di fiducia nella nostra capacità di sopportare quello che prima potevamo considerare insopportabile.

Questo è un punto veramente importante perché gran parte di quello che dobbiamo affrontare consiste in questi grandi mostri e fantasmi della mente con i quali sembra estremamente difficile convivere; sembra che abbiano il potere di oscurare la nostra consapevolezza, di respingerla o di allontanarla. Dobbiamo continuare ad applicare l’attenzione, ad aprire il cuore e nel continuare a farlo acquistiamo più sicurezza, diventiamo più sicuri nell’affrontare ciò che non conosciamo; l’aspetto ignoto dell’essere: “Quanto posso sopportare? Per quanto tempo, sarà così?”

C’è saddha, o la fiducia, che sorge quando veramente qualcosa cessa e c’è un momento di non identificazione; in quel luogo di non identità, di non sé, ci possiamo rilassare. Ma molto spesso se non abbiamo abbastanza fede o fiducia, può essere un luogo che fa paura ed è questo il motivo per il quale non siamo in grado di mantenere questo stato per un periodo molto lungo. Si tratta proprio del luogo del Buddha, il luogo della pura conoscenza, della pura consapevolezza. Per essere in grado di restare in questo luogo – dove non è necessario rinascere nuovamente – bisogna avere una fede incredibile.

La natura della mente è intrinsecamente pura

In un altro insegnamento abbastanza noto il Buddha disse che la mente è luminosa, che la sua vera natura è pura e luminosa e che è contaminata solo da contaminazioni transitorie e casuali. Molto spesso afferriamo quello che accade nella nostra mente – tutto quello che proviamo, dalla rabbia al piacere in noi e in quello delle nostre relazioni , assumiamo il tutto per chi o che cosa siamo. “Sono profondamente arrabbiata” oppure “Sono schiava del desiderio”, e ci crediamo profondamente.

In realtà fare esperienza della vera natura della mente non ha niente a che vedere con chi crediamo essere o come pensiamo che sia la nostra personalità – il fatto di avere una personalità forte o debole, il fatto di essere più o meno intelligenti non c’entra niente. E persino il fatto di essere o non essere in grado di esprimere queste cose non ha alcuna importanza. Si tratta della nostra capacità di guardare onestamente dentro di noi, di sostenere quello che c’è e sviluppare il coraggio di continuare ad andare sempre più in fondo.

Questo non significa che dobbiamo ritirarci in una caverna o in una kuti anni finché non troviamo la vera natura della nostra mente. Questo desiderio, di tanto in tanto, forse lo abbiamo tutti, ma nella realtà dobbiamo continuare ad affrontare ciò che la vita ci presenta. Nella vita possiamo trovarci coinvolti in diverse situazioni, ma sono tutte parte della nostra particolare condizione karmica e tutto ciò in cui siamo coinvolti ci offre grandi possibilità di apprendimento. Non siamo qui coinvolti in quello che siamo senza un motivo; le situazioni difficili che incontriamo sono quelle che ci possono insegnare di più.

Ma, come prima, vi chiedo nuovamente: siamo disposti ad affrontare tutto questo? Quando guardo me stessa e la mia pratica spesso trovo che non c’è la volontà di affrontare quello che si presenta nel momento. C’è sempre una scrupolosa cernita in atto e l’idea che altrove si possa avere qualcosa di meglio; tutto il nostro atteggiamento è totalmente pervaso dalla ‘sindrome dell’erba del vicino’. Si tratta solo di insoddisfazione, della mancanza di capacità di essere pienamente con, di aprirsi al dispiacere, al dolore, a dukkha, proprio qui, proprio ora.

Penso che il modo di praticare che ho descritto contenga quasi tutte le forme di tecnica o di pratica che il Buddha ha insegnato; rientra tutto in questa pratica della consapevolezza di dukkha e nell’affrontarlo. Se guardiamo con attenzione ed esaminiamo quanto sta accadendo, vediamo che stiamo sviluppando i quattro pilastri della consapevolezza, che stiamo praticando l’ottuplice sentiero, che stiamo coltivano la gentilezza amorevole e la compassione, la gioia indiscriminata e l’equanimità, che stiamo coltivando l’equilibrio della facoltà spirituali di fede e saggezza, energia e concentrazione, con consapevolezza. Lavoriamo costantemente su queste facoltà.

Leggere il cuore

Quindi non si tratta di dovere imparare prima una grande quantità di conoscenze e di doverle capire in modo razionale. Ho sentito che Ajahan Chah spesso incoraggiava i suoi discepoli a mettere da parte i libri; “Leggete il libro del cuore”, diceva, perché è lì che sta la vera conoscenza, e lì che può sorgere la vera comprensione”. A quel tipo di soddisfazione che deriva dalla conoscenza delle cose attraverso i libri, alla soddisfazione della conoscenza intellettuale, siamo abbastanza abituati, ma la comprensione della realtà attraverso l’esperienza, che può essere molto semplice e diretta, è un’altra cosa.

Spesso ci manca la sicurezza per andare avanti in questo tipo di ‘indagine personale’. Molti aspetti del nostro condizionamento culturale e della nostra educazione ci hanno reso più deboli. Nel mondo moderno c’è la tendenza ad essere ossessionati dalla personalità e dall’immagine, da facili felicità ed eccitazioni, e cresciamo con questa tendenza a pensare che tutti gli altri sanno come essere felici e noi non lo sappiamo. Guardiamo sempre le altre persone per avere una conferma, o per avere approvazione o perché ci dicano come stanno le cose, come dovremmo essere e come possiamo essere felici. Ma, in realtà, ognuno di noi lo può sapere solo da se stesso. Il Buddha diceva proprio questo. Ha fornito centinaia d’insegnamenti per aiutare le persone, insegnamenti che portano l’attenzione verso l’interno e che danno indizi e consigli su cosa guardare e su come guardare ciò di cui facciamo esperienza, per potere raccogliere i risultati migliori.

Una volta, mentre era con un folto gruppo di monaci nella foresta, il Buddha prese una manciata di foglie e chiese ai bhikkhu: “Sono di più le foglie della foresta o quelle che si trovano nella mia mano?”. Loro risposero “Beh, naturalmente tutte le foglie della foresta sono molte di più di quelle che sono nella tua mano”. E lui disse: “Proprio così. Tutte le foglie della foresta possono essere paragonate a quanto so, ma le foglie nella mia mano sono quanto v’insegno, perché questo è quello che porta alla liberazione”.

Così possiamo cercare la conoscenza di molte cose ed effettivamente ottenerla, ma questo non ci condurrà necessariamente verso la meta, verso la libertà. La strada giusta è quella di attingere direttamente da quello che il Buddha ci ha dato e gli insegnamenti fondamentali sono molto semplici. Quello che ci condurrà a vedere la fine di dukkha è questa consapevolezza della quale abbiamo parlato: la consapevolezza di dukkha, la comprensione di dukkha.

Negli insegnamenti sulle Quattro Nobili Verità, la prima Verità afferma: ‘c’è il dukkha’, e le indicazioni esortano alla sua comprensione. La seconda Verità asserisce: ‘c’è la causa del dukkha’ e le istruzioni dicono che la causa, una volta che ne siamo consapevoli, dovrebbe essere abbandonata.

Vi potrei dire che il Buddha ha detto che la causa di dukkha è tanha, bramosia, ma questo non ci aiuta ad abbandonarla, non ci aiuta a comprendere che cos’è, non ci aiuta a conoscere come sorge in noi; tutto questo lavoro lo dobbiamo fare da soli.

La terza Verità è sulla realizzazione della cessazione di dukkha, e la quarta Verità è quella che indica il sentiero che conduce alla completa liberazione. Ma per sentiero s’intende semplicemente la comprensione del dukkha e l’abbandono delle sue cause in ogni momento: non è un lavoro che può essere fatto in futuro e non è un lavoro che può essere fatto tra un minuto, può essere fatto solo ora.

Quindi, se guardiamo attentamente, in realtà non è un’impresa impossibile; perché possiamo occuparci delle cose momento per momento, siamo capaci di farlo se ce ne diamo la possibilità, e non cerchiamo di farci carico di cose che vanno oltre questo momento. La sua semplicità consiste in questo, anche se, come spesso diciamo: “sembra facile, ma non lo è”. Forse a causa della nostra abitudine a volerci fare carico di troppe cose, di volere troppo. Non crediate che la liberazione sia molto lontana, non deve essere per forza così, essa è sempre qui e ora, a portata di mano. Il Dhamma può essere visto qui e ora.

Spesso viene detto che il sentiero è graduale, ma non è qualcosa che si fa solo per gradi, cioè prima si coltiva il primo aspetto del sentiero e poi il secondo oppure si lavora sul primo fondamento della consapevolezza e poi sul secondo. E’ l’insieme di tutto questo che si riunisce nella pratica del momento ed è una spirale di comprensione che si approfondisce: può sorgere in un attimo e approfondirsi col tempo.

Post Scriptum

Per tornare al punto dal quale siamo partiti – contemplare il creato e il non-creato – vorrei finire con questa piccola storia che si trova nelle scritture. Uno dei monaci, che aveva immensi poteri psichici, voleva conoscere la risposta ad un grosso quesito che lo tormentava durante la meditazione: ‘Dov’è che i quattro grandi elementi cessano senza lasciare residuo?’. Cioè dove hanno fine i fondamentali elementi della realtà materiale: terra, acqua, fuoco, aria?

A quanto pare questo monaco viaggiò attraverso tutti i reami dei Deva attraverso tutti i mondi di Brahma per porre agli dei questa domanda; arrivò al più alto reame di Brahma e poté chiederlo al Grande Brahma in persona, al dio più alto che dovrebbe sapere tutto.

Così egli pose al Grande Brahma questa domanda: “Dov’è che i quattro grandi elementi cessano senza lasciare residuo?”. A questa domanda Brahma rispose: “Monaco, io sono Brahma, il Grande Brahma, il Conquistatore, il Non-conquistato, l’Onniveggente, l’Onnipotente, il Signore, il Fautore e il Creatore, il Sovrano, Colui che designa e ordina, Padre di Tutto Ciò che E’ Stato e che Sarà.” E il monaco disse: “Ebbene, dov’è che i quattro grandi elementi cessano senza lasciare residuo?” E Brahma continuava solo a dire “Io sono il Grande Brahma…ecc, ecc”.

Questa cosa continuò per un po’, finché Brahma prese da parte il monaco e gli disse: “Non farmi questa domanda davanti ai miei seguaci…” (ovvero: “loro non sanno che io proprio non lo so”). Poi disse: “Sei venuto nel luogo sbagliato, dovresti andare dal Buddha, lui sa la risposta alla tua domanda..”

Così il monaco tornò nel regno degli umani, trovò il Buddha e gli pose la domanda: “Dov’è che i quattro grandi elementi cessano senza lasciare residuo?”. Il Buddha rispose: “Monaco, hai posto la domanda nel modo sbagliato, piuttosto dovresti chiedere …, dov’è che i quattro elementi non trovano fondamento?”.

Il Buddha continuò: “Dove la coscienza è senza segno, senza limiti, tutta luminosa, ecco dove la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria non trovano fondamento. Lì lungo e corto, piccolo e grande, bello e brutto, nome e forma, sono completamente distrutti, con la cessazione della coscienza tutto questo è distrutto.”

Nome e forma sono nama-rupa, pensiero e materia. Il Buddha indica un luogo dove la mente che si attacca al pensiero e alla materia non è più attiva, quindi non c’è più la creazione di soggetto/oggetto nei confronti del ‘mondo’, la coscienza dualistica non opera più. “Con la cessazione della coscienza tutto questo è distrutto”.

Questa frase: ‘cessazione della coscienza’, a volte confonde le persone. Si tratta di attenuare l’abituale attività della mente che è distratta dal contatto, dagli oggetti dei sensi. Non si tratta di essere in, annientati o annichiliti. Quello che il Buddha ha detto: “la coscienza (che) è senza segno, senza limiti, tutta luminosa”, a me sembra abbastanza positivo. La mente che non re-agisce più al contatto dei sensi e che quindi non ri-crea il mondo che abitiamo in quanto esseri dotati di psiche, si trova nella pace definitiva.

 

di Sister Ajahn Jitindriya

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis

Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.