Il testo seguente è tratto da
“Lin Chi Lu – Raccolta dei detti del Maestro Ch’an Lin Chi I-Hsuan [Rinzai]”,
traduzione e commento di Engaku Taino.

lin-chiIl Buddhismo è nato in India il VI secolo avanti Cristo ed è solo all’inizio della nostra era che si è diffuso nel resto dell’Asia centrale ed orientale, e segnatamente in Cina. L’introduzione di questa pianta straniera nel suolo cinese, le modalità della sua acclimatazione, gli adattamenti, gli innesti che l’hanno trasformata, costituiscono uno dei fenomeni di acculturazione più rimarchevoli che si possano osservare.

Al termine di una decina di secoli, quando l’assimilazione fu raggiunta ed il Buddhismo fu assorbito nella tradizione cinese, all’epoca Sung, ben poca cosa sussisteva ancora dei suoi elementi indiani.

La scuola più rappresentativa di quel tempo e che qui viene presa in considerazione è la scuola Ch’an, che si pronuncia Zen in giapponese, nome con il quale è maggiormente conosciuta nel mondo occidentale. La parola Ch’an è la trascrizione della parola sanscrita Dhyana, che significa “meditazione”.  Nel Buddhismo canonico dell’India, questa parola indica alcuni esercizi, debitamente definiti e graduali, che tendono all’ottenimento di una serie di stati di risveglio, di concentrazione e di pulizia mentale caratteristici dello Yoga.

Quando il Buddhismo penetrò in Cina questa tecnica si innestò su tecniche analoghe che avevano avuto uno sviluppo, in precedenza, nel Taoismo; coloro che ne divenirono specialisti furono maestri di Dhyana (in cinese, maestri di Ch’an). Con la cinesizzazione progressiva del Buddhismo, il Ch’an si trovò implicato in un problema che non aveva granché di indiano e che contrapponeva la meditazione e l’azione, la teoria e la pratica, l’evasione e l’impegno, il movimento e la quiete perché tutto in Cina si rapportava a questioni di comportamento umano ed esperienze in atto.

Ed è così che prima del ‘700, verso l’inizio dell’epoca Tang (618-907), andava a formarsi quella che più tardi si sarebbe chiamata la scuola Ch’an, che è molto meglio a questo punto chiamare con il suo nome cinese, perché era in piena reazione nei confronti della Dhyana, la meditazione concepita all’indiana. Essa fu una vera riforma cinese del Buddhismo perché non solo la meditazione introversa, passiva, negativa, il Ch’an seduto come si diceva nella scuola, cessò a poco a poco di essere praticata, ma fu formalmente condannata.

La quiete fu considerata solo dialetticamente con il movimento. L’una non poteva essere senza l’altro secondo la nozione di superamento dei contrari che il Ch’an aveva ereditato dal Taoismo pre-buddhista.

Il principale iniziatore di questa riforma è stato un monaco, conosciuto come un illetterato, Hui Neng, morto nel 713. Era un cantonese, un semi barbaro come dichiarò egli stesso, perché la religione di Canton rimaneva a quel tempo ai margini della cultura classica cinese, ma fu l’uomo migliore per levarsi contro il Buddhismo cinese, che dominava la vita intellettuale della corte, degli ufficiali e dei letterati delle metropoli imperiali.

Niente più opere, niente pratiche pie, niente ascetismi, niente riti, niente culti; non più testi, ma liberazione delle scritture, cercando la verità in sé stessi. Risvegliando l’uomo vero, l’uomo vivente, dalle bende che lo costringono, dalle tradizioni scolastiche, dalle vane speculazioni, dalle ricerche erudite.

Diventare semplici, rilassati, lasciare la presa, non avere più affari, ecco i temi essenziali di questa scuola che si propagava nella Cina intera e poi nel resto dell’estremo Oriente. Un secolo e mezzo dopo Hui-neng, Lin-Chi seppe dare a questo sistema, che è la negazione di tutti sistemi, la sua espressione, sicuramente la più forte, il suo accento più umano e la sua portata più vasta.

Il suo insegnamento, che gli valse durante la sua vita una celebrità nazionale, lo abbiamo conosciuto per una raccolta di note che sono state compilate da uno dei suoi discepoli. Secondo una tradizione che risale a Confucio e che vuole che le parole di un maestro siano registrate come sono state dette, gli insegnamenti di Lin-Chi sono pervenuti nella lingua che egli stesso aveva usato per prima. 

Altamente idiomatica tanto da avere creato non poche difficoltà per la sua interpretazione, essa è resa ancor più difficile dal carattere aspro del pensiero di Lin-Chi. Senza alcuno sviluppo discorsivo, è un pensiero rivolto contro il discorsivo; mai esposizioni astratte, l’astrazione è rigettata; l’ellissi regna nelle relazioni fra le idee e bisogna, ogni momento, supporre ed indovinare. Le conclusioni rimangono implicite lasciate all’intuizione dell’ascoltatore, o del lettore.

In più, nemico dichiarato di tutti i verbalismi, Lin-chi ricorre sovente al grido, ai gesti, ai colpi di bastone, discendendo bruscamente dalla sedia e sortendo dalla sala con la rapidità del vento.

Tutto questo egli chiama agire con tutto il proprio corpo e il significato di questi comportamenti, che costituiscono una sorta di linguaggio fra convenuti, rimangono poco chiari ad una prima lettura.

Si presentano come degli enigmi, la chiave dei quali deve essere trasmessa soltanto oralmente. Nei monasteri Zen giapponesi, il testo Rinzai Roku come viene correntemente chiamato, è fondamentale ed è oggetto di lettura e commento di ogni maestro.

Ho avuto l’opportunità e la fortuna di ascoltare il commento a questo testo, come pure al Hekigan Roku e al Mumon Kan, dal mio maestro il Roshi Yamada Mumon, nel tempo che sono vissuto a Shofuku-ji in Giappone. Il commento, o meglio ancora, l’interpretazione che il maestro di Ch’an fa del testo, oggetto del suo sermone quasi quotidiano, è qualcosa di speciale.

Egli deve ricreare il momento e lo spirito dell’episodio di cui sta trattando e far di tutto per mostrare ai suoi ascoltatori la realizzazione dei personaggi che compaiono sulla scena. Per fare ciò si avvale della lunga esperienza di pratica personale e dell’abitudine all’insegnamento. Dalla pratica di concentrazione e di respirazione gli vengono gli strumenti per esprimere il proprio Ch’an, oltre che dalla sua realizzazione spirituale. Nel momento in cui parla, il maestro deve essere i personaggi del testo, che può interpretare perché li ha conosciuti direttamente, senza intermediari, per mezzo della risoluzione dei Koan, nei quali essi compaiono di volta in volta secondo una gradualità stabilita. Inoltre, il maestro deve porgere ai suoi studenti gli strumenti per interpretare, nella propria vita di tutti i giorni, avvenimenti che si sono svolti nel lontano passato ma ancora in grado di riproporre i problemi della presente umanità.

In Giappone i monaci e i laici, che assistono ai sermoni del maestro, seggono in terra sulle stuoie, all’interno della sala delle cerimonie, la più grande dei tanti edifici che costituiscono il monastero. Il maestro entra per ultimo accompagnato da un rullo di tamburo; al suono di una campana tutti i presenti iniziano a recitare ad alta voce, secondo il tempo scandito da uno speciale oggetto di legno cavo, le invocazioni per salutare i maestri del passato. Prima che il maestro inizi a parlare, si recita un avvertimento del grande maestro giapponese Daito Kokushi (1282-1338) il quale esorta i monaci a dedicarsi completamente alla ricerca della Via, senza pensare al cibo o alle vesti e tanto meno al successo materiale.

Infine il maestro, che ormai è seduto sul suo alto seggio, legge il capitolo del testo che prenderà in esame. Egli è rivolto all’altare e tutti gli altri sono seduti ai suoi lati, trasversalmente rispetto a lui, in silenzio assoluto, in profonda meditazione, cercando di diventare una sola cosa con il maestro e con le sue parole. Queste parole devono essere comprese non per il loro senso letterale, ma accolte in silenzio in sé stessi, per lasciare che parlino dall’interno.

Il sermone dura più di un’ora ed il solo fatto di rimanere seduti immobili così a lungo, senza cuscini, mette a dura prova gli ascoltatori.  Alla fine il maestro esorta tutti a trovare l’uno in sé stessi e poi tutti insieme si recitano i “Quattro Voti del Bodhisattva”: Salvare tutti gli esseri, Estirpare tutte le brame, Comprendere tutte le leggi, Realizzare la illuminazione.

fonte:   http://www.scaramuccia.it/