La Retta Comprensione è stata tramandata dalla tradizione con il nome di “illuminazione”. Ma cos’è in concreto la Retta Comprensione? Evidentemente è la comprensione della vera natura della realtà. «Fratelli, la causa della sofferenza è l’ignoranza. A causa dell’ignoranza, gli uomini non vedono la realtà della vita e si lasciano imprigionare nelle fiamme del desiderio, dell’ira, dell’invidia, dell’angoscia, del timore, della paura e della disperazione.» (Suttapitaka, Samyutta-Nikaya, Dhammacakkapavattana Sutta)
Quindi più propriamente possiamo chiamarla “retta conoscenza”. La retta conoscenza consiste dunque in una conoscenza corretta della realtà, non alterata dall’ ignoranza. Ma cos’è veramente la realtà? La definizione che la tradizione attribuisce al Buddha è chiara: la realtà è continuo cambiamento. Tutta la nostra esperienza ce lo dimostra: le cose e le persone intorno a noi cambiano continuamente, e noi stessi cambiamo continuamente. Le situazioni cambiano continuamente. Il nostro corpo cambia continuamente. La nostra mente cambia continuamente. L’universo intorno a noi cambia continuamente.
Ma la scoperta del Buddha non si è fermata qui. Egli ha scoperto anche che l’esistenza di ciascuna cosa è condizionata dall’esistenza di tutte le altre.
La scoperta che la realtà è fatta di cose in continua trasformazione e tutte collegate fra loro costituisce la famosa illuminazione. La retta conoscenza dà luogo dunque all’ illuminazione.
Siddhartha considerò la scoperta della vera natura della realtà talmente importante e centrale da costituire una vera e propria illuminazione, un evento che lo portò a definire sé stesso come il Buddha, l’illuminato. Perché? Evidentemente non è la conoscenza della verità in sé ad essere così importante. Noi sappiamo che l’interesse del Buddha non era la conoscenza, ma la liberazione dalla sofferenza. Un interesse pratico.
Va bene, io ho capito che la realtà è fatta di cose in continua trasformazione e tutte collegate fra loro. E allora? Cosa me ne faccio di questa scoperta? Cosa ne ricavo? Quello che ricavo è questo: che se tutto è in continua trasformazione, io non posso attaccarmi a nulla. Noi non possiamo attaccarci a nulla, perché non esiste nulla di immutabile, che rimanga uguale a sé stesso nel tempo. Il crederlo costituisce un’illusione.
Quindi noi siamo obbligati, per evidenza esistenziale e coerenza mentale, a sviluppare il non attaccamento. Il non attaccamento è la chiave psicologica che apre la porta della liberazione dalla sofferenza. È evidente infatti che se io non mi attacco più a nulla, tutte le mie preoccupazioni, i miei problemi, le mie ansie, le mie paure, la sofferenza psichica appunto, svaniscono come neve al sole. Perché la sofferenza deriva dall’attaccamento a una situazione diversa da quella che c’è: dal desiderio di qualcosa che non ho o dall’avversione a qualcosa che ho.
Il non attaccamento assolve quindi il compito iniziale a cui il Buddha si era applicato: eliminare la sofferenza. Dunque, compiutamente:
La retta Conoscenza (illuminazione) consiste nella consapevolezza che le cose e le persone cambiano continuamente e sono tutte collegate fra loro, e quindi nello sviluppo del non attaccamento.
Basterebbe questo primo precetto, il non attaccamento, per realizzare il buddhismo predicato dal Buddha ed eliminare la sofferenza psichica dalla nostra vita. È evidente che esso è un precetto psicologico, in quanto prescrive un particolare atteggiamento mentale: il vedere la realtà per quella che è.
Tratto da: Come diventare un Buddha in cinque settimane – Giulio Cesare Giacobbe – Ed. Ponte delle grazie