Rifugio nel Dhamma

Il secondo rifugio, il Dhamma, è molto vicino al primo. C’è appunto un famoso insegnamento dato dal Buddha ai suoi discepoli, poco prima di morire. Essi erano in ansia per il fatto che il Buddha lasciasse questo mondo e si domandavano chi sarebbe stato il loro maestro dopo la sua dipartita. Si preoccupavano di chi sarebbe stato il successore e la loro guida. Ed egli disse. “Il Dhamma e il Vinaya saranno la vostra guida e il vostro rifugio.” In una precedente occasione aveva anche detto che: “Chi vede il Buddha vede il Dhamma, chi vede il Dhamma, vede il Buddha.” Dhamma e Buddha; non c’è nessun bisogno di avere un Buddha fisico. In realtà possiamo trovare il Buddha, colui che conosce, colui che è consapevole, nel nostro stesso cuore. E appena siamo consapevoli, presenti mentalmente, siamo in contatto con il Dhamma. Questo è il bello di questa pratica. Leggendo libri sul Buddhismo a volte pensiamo di dovere leggere l’intero Tripitaka prima di potere entrare in contatto con il Dhamma. Crediamo di dovere imparare l’ Abhidhamma, di dovere perfezionare le dieci paramita, dovere sviluppare i cinque poteri, sbarazzarci dei cinque ostacoli e conoscere i 56 stadi della coscienza, e così via e alla fine ci sentiamo così stanchi che non ce la sentiamo nemmeno di cominciare.

In effetti oggi riflettevo sul fatto che quando nella meditazione respiriamo consapevolmente attraverso le narici, tollerando un po’ di dolore, un po’ di sudore o sopportando il caldo, il freddo, la gente rumorosa o la noia, non abbiamo la minima idea della quantità di cose con cui realmente stiamo facendo pratica. Ancora non sappiamo che in quei momenti stiamo perfezionando le dieci paramita, che stiamo lasciando andare gli ostacoli e stiamo sviluppando i cinque poteri: concentrazione, sforzo, presenza mentale, fede e saggezza. Forse non ne siamo consapevoli, ma stiamo veramente perfezionando molte qualità spirituali del cuore. Però non sembra granché, non è vero? Stiamo semplicemente inspirando attraverso le narici e poi espirando, e poi sentiamo un po’ di dolore, e poi questo se ne va. Niente di speciale, no? Eppure, dopo qualche anno di pratica, cominciamo a vedere i frutti del nostro sforzo e gli insegnamenti diventano vivi.

Così il rifugio nel Dhamma non è qualcosa che dobbiamo cercare molto lontano. Non dobbiamo cercare il Dhamma da qualche parte, là fuori in un altro paese, o in un’altra persona, o un qualcosa che succederà domani o l’anno prossimo.

La qualità del Dhamma è l’immediatezza (sanditthiko) – il qui e ora. Il Dhamma ci invita a “venire a vedere” (ehipassiko) e questo si può fare quando c’è consapevolezza e saggezza. Il Dhamma non è “qualcosa che verrà dopo” (akaliko). Queste qualità le recitiamo ogni mattina. Non dobbiamo aspettare che qualcuno ci dica che cosa è. Non dobbiamo leggere libri. Non dobbiamo fare uno studio progressivo, passo dopo passo, prima di potere entrare in contatto con il Dhamma. Il rifugio nella consapevolezza ci porta al presente e nel presente c’è il Dhamma, c’è la verità, c’è il modo in cui le cose sono. Questo, però, si può vedere soltanto quando c’è una chiara consapevolezza del momento presente.

Un altro significato di Dhamma è “ciò che si auto-sostenta.” La natura si sostiene da sé, ha i suoi cicli e le sue stagioni – va avanti per sempre. Possiamo guardare la natura della nostra mente, la nostra natura umana e come operiamo. Anche noi abbiamo stagioni e cicli, abbiamo i nostri giorni e le nostre notti, il nostro buio e la nostra luce, abbiamo un ritmo. E siccome non conosciamo questo ritmo, a volte ci trasciniamo fino al completo esaurimento, alla malattia o allo stress mentale. Spesso dimentichiamo di essere parte della natura, parte del ‘modo in cui le cose sono.’

La nostra intelligenza, la nostra capacità di conoscere, tende ad alienarci dalla nostra natura. Spesso ci sentiamo degli estranei nei nostri confronti perché la natura umana non è poi così eccitante, i pensieri lo sono molto di più! Noi pensiamo, pensiamo, pensiamo le cose più incredibili. La nostra immaginazione è davvero alquanto creativa, specialmente durante i ritiri. Possiamo veramente vedere che meraviglioso creatore è la mente.

Una volta, un famoso Maestro thailandese di meditazione disse che nel Buddhismo non è un Dio che crea, è l’ignoranza. Noi creiamo a causa dell’ignoranza. Creiamo un’incredibile quantità di cose meravigliose e di cose orribili: paradisi e inferni. Possiamo immaginare quasi tutto. A volte ci chiediamo che cosa abbiamo fatto in passato perché la nostra mente possa pensare cose tanto stravaganti.

A causa della capacità della mente di pensare e di creare mentalmente, spesso non riconosciamo la nostra natura fisica, il ritmo del nostro corpo, il ritmo della nostra mente, il ritmo delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, dei nostri stati d’animo, di come siamo influenzati dal mondo che ci circonda, dalla luna e dal sole, dal giorno e dalla notte. Sembra che molti di noi non riconoscano il valore di tutto questo nei propri confronti. Tendiamo ad avere un sacco d’idee su come le cose dovrebbero essere, come ci piacerebbe che fossero, come pensiamo che dovrebbero essere, e abbiamo pochissimo spazio per ‘il modo in cui le cose sono’, per quello che sta succedendo in questo momento. Per la verità, dopo un po’ di tempo, si riesce a vedere chiaramente lo schema nella propria mente: c’è ciò che noi pensiamo che dovrebbe essere, poi ciò che vorremmo che fosse, e alla fine ciò che è. Sembra che tutti e tre abbiano un po’ di difficoltà a collaborare tra di loro. Nei primi anni c’è voluto un po’ di tempo prima che mi accorgessi di questo schema, ma con la pratica ho iniziato a capire che in un momento possiamo soltanto essere consapevoli di quel tanto, che spesso non è molto. Possiamo pensare un sacco di cose, ma in realtà possiamo conoscerne abbastanza poche. La comprensione si approfondisce attraverso la conoscenza e indagando su ciò che noi siamo.

Quando era ancora una anagarika, ho trascorso il mio terzo Vassa con un’altra monaca a 300 miglia di distanza dal monastero. Nel periodo del Vassa eravamo in ritiro per la maggior parte del tempo. All’inizio vedevo che ogni volta che provavo una sensazione di avidità, di rabbia o di illusione, i miei pensieri avevano uno schema ricorrente. Alle 7:00 di sera, mentre facevamo la recitazione serale, la sofferenza che avevo patito durante il giorno sembrava che stessero svanendo, o quanto meno, diminuendo. E improvvisamente avevo questa straordinaria intuizione di come avrei trascorso il giorno seguente ed esattamente di come avrei gestito tutti i miei problemi. Improvvisamente sapevo come trattare l’avidità, sapevo come trattare l’odio; sapevo come trattare la noia, l’irrequietezza, tutto quanto. Sentivo di avere la situazione sotto controllo e sapevo che non avrei mai più sofferto. Lo sapevo. Ero convinta che non avrei mai più sofferto.

Naturalmente per le 9:30 la mia intuizione si era sviluppata a tal punto che non avevo assolutamente alcun dubbio sul fatto di essere illuminata riguardo a tutti i miei problemi. Andavo a letto e arrivavano le 4:00 del mattina. Vi potete immaginare quello che succede alle 4:00 del mattino! I primi anni era ancora abbastanza difficile svegliarsi a quell’ora del mattino. La mente può essere assonnata, intorpidita, depressa, orribile.

Facevo degli esercizi yoga perché sapevo che fare yoga era meglio che rimanere in quello stato negativo. E dopo la sessione, generalmente, mi sentivo meglio. Facevamo le nostre recitazioni e dopo arrivava il giorno. Non facevamo colazione in quei giorni, prendevamo soltanto una bevanda calda e la mia negatività non migliorava così velocemente come avrei voluto. Mi sentivo ancora un po’ irritata e depressa. Poi arrivava il pasto, e non era per niente una cosa da poco. Avevamo deciso che, durante quei tre mesi, avremmo fatto la pratica in un’unica seduta, significava che, una volta che ci sedevamo per mangiare, non potevamo alzarci e se lo facevamo, avremmo dovuto smettere di mangiare e per quella giornata avremmo chiuso!

Così, per non doverci alzare di nuovo, prima di sederci ci assicuravamo di avere abbastanza da mangiare e di non avere dimenticato niente. Alla fine del pranzo mi sentivo di nuovo in uno stato pietoso perché, naturalmente, avevo mangiato troppo. Questo significava un pomeriggio di depressione, di indolenza, di sonnolenza e di confusione perché la mente non era in grado di affrontare il disagio di sentirsi avida o in collera con se stessa. Ho visto che, per un certo periodo di tempo, ogni giorno lo stesso ciclo ricominciava da capo. Certamente c’erano anche dei momenti luminosi e di pace!

Ma, una volta seduta di fronte al mio pasto, tutte le mie intuizioni erano svanite, andate da qualche parte dove non potevo trovarle. In quel momento era molto difficile portare in essere la saggezza e la presenza mentale, perché in fondo volevo solo quello che volevo; volevo mangiare, quello che volevo e quanto ne volevo. Tutto qui! Prima di ogni pasto facevamo una riflessione che diceva che il mangiare è per il benessere del corpo, non per divertimento, né per piacere, ne’ per diventare belli o per ingrassare e così via, ma dopo averla recitata, automaticamente mi scordavo tutto e incominciavo a mangiare.

Ad ogni modo, verso le 5:00 del pomeriggio mi sentivo meglio e un po’ più leggera. Venivo da quattro ore di meditazione seduta e camminata durante la digestione di un pasto pesante; verso le 6:00 nella mia mente sorgeva nuovamente la risoluzione di non farlo più, di non cedere per niente o di non assecondare i miei desideri. In quel momento la mia comprensione era perfettamente chiara. Alle 7:00 non avevo dubbi. Alle 9:30 di sera conoscevo completamente l’insegnamento del Buddha, sapevo di essere in grado di usarlo e che non avrei mai più sofferto.

Questa situazione andò avanti per un bel po’ finché non mi resi conto che si trattava solo della mia mente. Non aveva niente a che fare con la realtà. Era solo il modo in cui la mia mente pensava. Quindi possiamo immaginare quanta delusione avremmo ogni giorno se credessimo a questi pensieri e non li vedessimo come dhamma o se li sentissimo come ‘questo è ciò che sono’?

In effetti, ogni giorno mi sentivo delusa di ‘me stessa’ e la mia sensazione era: “Non sono brava. Non so farlo.” Ma quando cominciai a vedere chiaramente lo schema e quando mi resi conto che era esattamente ciò che dovevo capire e da cui dovevo imparare, non ci furono problemi.

Fin quando prendiamo le cose in modo personale, perdiamo il Dhamma e veniamo presi in giro da quello che sorge nella nostra mente. Non riusciamo a vedere che le cose che ci fanno stare male non sono né quello che siamo né quello che crediamo di essere. Abbiamo la tendenza a credere e a identificarci con il flusso costante dei pensieri, dei sentimenti, delle percezioni della nostra mente, e non c’è da meravigliarsi se diventiamo nevrotici e dobbiamo andare dallo psichiatra, dallo psicanalista, dai guaritori e via dicendo.

Prendere rifugio – Introduzione
Prendere rifugio – nel Buddha
Prendere rifugio – nel Dhamma
Prendere rifugio – nel Dhamma (2 parte)
Prendere rifugio – nel Sangha

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(di Sister Ajahn Sundara)

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© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
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Tradotto da Gabriella De Franchis

[Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.]

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