Rifugio nel Dhamma (2)

Si tratta di praticare con il giusto atteggiamento, con un atteggiamento di compassione e di infinita pazienza, piuttosto che sviluppare e perfezionare qualche tecnica particolare. Perché, se nonostante la molta pratica e l’esperienza nella meditazione sul respiro, nel passare in rassegna il corpo e tutto quanto, ci sforziamo ancora per arrivare ad essere un perfetto ‘meditatore anapanasati’, il nostro approccio è sbagliato. Senza una prospettiva corretta rimaniamo imbrigliati nell’idea di dovere migliorare il ‘Me’.

L’immediatezza e la chiarezza dell’esperienza del Dhamma è qualcosa di molto straordinario; è un’altra grande benedizione. Possiamo comprendere la vera natura dei nostri pensieri senza alcuna intermediazione. Non dobbiamo creare niente; possiamo semplicemente vedere i pensieri come sono. E’ una cosa abbastanza notevole ed è quello che mi ha attirato di più di questo insegnamento.

Quando sono venuta a praticare ero, in un certo senso, molto contenta della semplicità e dell’immediatezza della realizzazione della natura della mente. Non bisognava imparare troppo o prendere un dottorato, non si doveva cominciare ad accumulare più conoscenza. Nella pratica del Dhamma si procede lasciando andare, svuotando e liberando se stessi dal fardello della conoscenza, dal fardello delle esperienze accumulate, dal peso di dovere essere qualcuno o di dovere reggere una persona nella mente.

Mi ricordo che quando praticavo da laica nel mondo (questo naturalmente non è per influenzarvi tutti a diventare monaci o monache), avevo la sensazione di essere sempre ‘qualcuno’ che praticava. Lo trovavo molto difficile. C’era questo peso di ‘me’ che praticava. Quando sono venuta al monastero ero una qualunque e potevo dimenticare di dovermi sentire speciale o di dovere essere qualcuno che va contro corrente, qualche strana creatura sul sentiero spirituale, perché tutti lì facevano la stessa cosa: eri proprio nella norma.

Questo è un altro significato di Dhamma: “la Norma.” Ciò che è normale, ordinario. Molto del nostro addestramento in monastero è centrato su ciò che è ordinario. Ogni giorno passiamo un certo periodo di tempo pulendo, spazzando, spolverando, andando da una stanza all’altra, facendo semplici lavori e prestando attenzione alle cose più terrene, come aprire le porte, vestirsi, mangiare, alzarsi al mattino, spazzolarsi i denti, indossare le scarpe, andare in bagno, andare a letto. Cose semplici come queste non sono eccitanti e la nostra mente impara a calmarsi e ad essere più semplice, più ordinaria.

Non è che ci possiamo divertire proprio tanto nel metterci le calze, o nell’alzarci alle 4:00 del mattino. Non ci affascina per niente il fatto di pulire i bagni. Sebbene io ce l’abbia messa tutta! Ho cercato di renderlo veramente interessante, ma non ci sono riuscita. In un certo senso è così ordinario. Ho pulito i bagni per un lungo periodo al Monastero di Chithurst, dove avevamo tutti diverse faccende domestiche da sbrigare al mattino. Le chiamiamo faccende domestiche, ma in realtà non lo sono, è solo quello che facciamo ogni mattina e quello che riusciamo a ricavarne. Possono essere noiose. Possono essere interessanti. O possono essere semplicemente quello che sono.

Possiamo vedere che la nostra mente vuole rendere le cose speciali. Ricordo che al mattino quando pulivo i bagni, decidevo di pulire prima il lavabo e poi, come seconda cosa il gabinetto e poi, per terzo, il pavimento. Forse il giorno dopo cambiavo schema; pulivo prima le finestre, o spazzavo con una scopa diversa. Oppure decidevo di non pulire il pavimento con quello straccio particolare e cambiavo mocio. Mi ritrovavo particolarmente intricata nell’uso di uno strumento particolare, o mi adiravo per cose veramente banali e facevo una grande tragedia per un nonnulla. Se non avessi vissuto in un monastero non avrei mai visto il modo in cui la mente sa creare tragedie dal nulla.

Essere in contatto con l’ordinarietà delle nostre vite è qualcosa di molto difficile per noi, perché siamo stati condizionati a caricarci di energia attraverso cose che sono interessanti o stimolanti. Oppure focalizziamo l’attenzione sulla cosa successiva: su cosa accadrà poi.

A meno che non ci sia una guida e l’aiuto da persone sagge, di persone che hanno la comprensione del sentiero, tendiamo a continuare la nostra pratica spirituale allo stesso modo di prima che cominciassimo. Stiamo ancora cercando il fascino, l’entusiasmo, qualcosa di speciale, il big bang, le luci lampeggianti, la super intuizione che risolverà tutti i ‘miei’ problemi.

Ma temo che non funzioni così. Con la pratica cambia la relazione che abbiamo con la nostra mente. Lasciamo fluire il flusso della brama, dell’odio e della illusione. Non ne facciamo più un problema. Lasciamo che il flusso della nostra mente prenda il suo corso. Smettiamo di dare forma di questo o di quello al flusso dei nostri pensieri e delle sensazioni. Essere in armonia con il Dhamma significa fare pace con tutto quello che sta succedendo ora, con “il modo in cui le cose sono”, il Dhamma.

Questo non vuol dire che ci trasformiamo in un cavolo, in una non-entità o che restiamo lì seduti ad aspettare, aspettare, aspettare che le cose succedano. Anche se a volte, forse, ci sentiamo così. Dopo alcuni anni di pratica, mi ricordo quanto mi sentivo stupida. C’erano momenti in cui mi ero completamente arresa all’idea che non mi sarei mai più sentita intelligente!

Ricordo che una volta in un caldo pomeriggio assolato, stavo attraversando il cortile ad Amaravati e mi sentivo abbastanza infelice e depressa. Avevo perso l’entusiasmo. Sembrava che non ci fosse più. C’era soltanto una specie di stato di indolenza e io mi ci stavo identificando pienamente. Era terribile. Pensavo veramente che questo stato d’animo era ciò che io ero e sentivo che ero molto arrabbiata per questo. Pensavo: “Questo non lo sopporto, è impossibile. ‘Loro’ con la ‘L’ maiuscola, mi stanno trasformando in una rapa.” (vegetale che consideravo il più smorto, insipido e insignificante!). Non sapevo chi fossero ‘Loro’….. Ricordo che lungo la strada incontrai uno dei maestri della comunità e gli dissi: “Probabilmente sto raccogliendo i frutti del karma di avere odiato essere una casalinga.” Ho sempre odiato così tanto l’idea di essere una casalinga che in passato, prima di diventare monaca, mi irritava fare le pulizie o i lavori di casa o lavare la biancheria o i piatti. Eppure, quando ho iniziato il mio addestramento a Chithurst, mi sono ritrovata a fare proprio questo. Egli rise e rispose: “Bene, quando la cosa non ti dispiacerà più veramente, allora vuol dire che questo tuo karma si è esaurito.”

Fu veramente un’intuizione fantastica perché pensavo che la cosa non mi dispiaceva. Però mi sentivo così disperata e infelice che ovviamente qualche cosa dentro di me si dispiaceva. Quindi è difficile essere ordinari e accettare le banalità della nostra vita. Ecco perché la maggior parte delle volte ci sentiamo frustrati, perché pensiamo che in qualche modo, le cose saranno diverse, non è vero?

Intuiamo che la vita non dovrebbe consistere soltanto nell’alzarsi al mattino, nel fare colazione, nell’annoiarsi, nel farsi un pianto al matrimonio di qualcuno, nell’andare in bagno, mangiare, annoiarsi al lavoro, tornare a casa, guardare la televisione, andare a letto, alzarsi al mattino e così via, giorno dopo giorno. Sentiamo che, comunque, qualcosa di diverso ci deve essere. Così facciamo un viaggio e giriamo il mondo – e scopriamo che anche nell’altra parte del mondo, dobbiamo ancora alzarci, dobbiamo ancora andare in bagno, dobbiamo ancora mangiare, essere felici e annoiarci, essere seccati e depressi. Abbiamo ancora lo stesso vecchio ‘io’; sia che siamo qui, o in California o in India o in qualsiasi posto. Riconoscere questo è stato il più grande insegnamento della vita monastica.

In realtà la vita monastica, vista dall’esterno, è abbastanza ripetitiva e noiosa. E se ci identifichiamo con le strutture o la routine, allora diventa il più tedioso stile di vita. A volte è così monotono che non ne avete idea! Ma accettando la percezione e il sentimento di noia, per esempio, ci rendiamo conto che in realtà va abbastanza bene.

Non si tratta tanto di liberarsi della noia quanto di vedere che cosa ci aspettiamo dalla vita. Io ho trascorso molti anni aspettandomi dalla vita qualcosa che non poteva darmi. Ecco dov’era il problema! E allo stesso modo, sarò molto delusa, frustrata o in costante stato di conflitto se dalla vita monastica mi aspetto qualcosa che non mi può dare.

Quindi vedere il modo in cui sono le cose è una realizzazione molto importante perché allora possiamo veramente lavorare con la vita così com’è invece di aspettarci qualcosa o di sognare. Le aspettative sono come i sogni. E la maggior parte della nostra vita è come un sogno, o come una nuvola, e noi speriamo che questa nuvola ci dia qualcosa di reale e sostanziale. Siete mai stati in grado di dare forma ad una nuvola? O a un sogno? Però, questo è quello che cerchiamo sempre di fare, non è vero? Possiamo avere controllo sui nostri sogni? Forse si, ma la maggior parte del tempo non siamo neanche in grado di ricordarli o di fare quello che vogliamo quando ci siamo dentro.

Allora c’è questo stato onirico che creiamo con le aspettative, con la non comprensione dei limiti della nostra mente e del nostro corpo, della nostra vita e del mondo in cui viviamo. La nostra vita può solo fare un tanto. Il nostro corpo può solo fare un tanto. Quando si è giovani si pensa che il proprio corpo possa fare qualsiasi cosa, ma quando raggiungiamo la mezza età, come me, allora anche sedersi può diventare una sfida. Amavo molto stare seduta; potevo stare seduta per lunghi periodi di tempo e mi piaceva molto. Era un piacere. Ma ora, a volte, è più una prova di forza.

Quindi siamo limitati; siamo legati da certe restrizioni. Ma se le vediamo per quelle che sono, allora, succede una cosa meravigliosa: possiamo veramente lavorare con la vita così com’è. Da essa non ci dobbiamo aspettare più niente; in realtà possiamo essere noi a dare alla nostra vita. E questo è un grande cambiamento nella nostra mente. Con la pratica cominciamo a vedere che non dobbiamo chiedere, ricevere o pretendere niente dalla vita. In realtà possiamo dare, offrire e con gioia rispondere ad essa. E questo possiamo farlo tutti.

La situazione naturale della realizzazione del Dhamma è la consapevolezza che la vita è una opportunità costante di dare, di essere generosi, di essere gentili, di essere utile in qualsiasi situazione ci troviamo. Quando lasciamo andare non siamo più così bloccati e ossessionati da noi stessi. Possiamo veramente essere utili. Possiamo aiutare. Possiamo dare. Possiamo incoraggiare noi stessi e le persone che ci stanno attorno.

Prendere rifugio – Introduzione
Prendere rifugio – nel Buddha
Prendere rifugio – nel Dhamma
Prendere rifugio – nel Dhamma (2 parte)
Prendere rifugio – nel Sangha

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(di Sister Ajahn Sundara)

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© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis

[Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.]

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