Spesso non è la difficoltà oggettiva ad abbattere l’individuo, quanto la paura mentale di non farcela. In realtà ciascuno ha in sé gli strumenti per affrontare le sfide della vita: l’importante è imparare a riconoscerli e allenarsi ad usarli.

Nel giugno del 1983 il caporale dei marines Karl Bell, precipitato in fondo ad una gola inaccessibile del Bear River, in California, sopravvisse 20 giorni cibandosi unicamente di erba, muschio e formiche. Il suo peso scese da 91 a 61 kg.

Nel 1954 un mercantile russo affondò a 600 miglia dalla costa orientale sovietica. Tre marinai vennero salvati dopo 5 mesi passati a vagare su una zattera nel Pacifico.

Nel 1974 Valery Kosjak, scagliato in mare da un’ondata, rimase per 4 ore circondato da pescecani. Nonostante non avesse speranza di sfuggire alla morte, mantenne la massima calma e -disse- tanta voglia di vivere. E sopravvisse!

Questi sono solo alcuni casi clamorosi che documentano di come l’uomo, in situazioni di estrema necessità, possa trovare in sé risorse insospettabili per superare anche i momenti di più profonda avversità. Questi episodi fanno ancora più riflettere se si pensa al dato statistico che riporta che il 90% dei naufraghi muore nei primi tre giorni dopo l’incidente, quando ancora nonsi può parlare di morte per fame e per sete. Dove sta, dunque, la differenza tra chi “non ce l’ha fatta” e chi è ancora qui “a raccontarla”?

Alla maggior parte degli uomini, verosimilmente, non capiterà mai di dover affrontare situazioni estreme come quelle riportate, è però vero che spesso la quotidianità mette ciascuno davanti a sfide che sembrano impossibili, a decisioni e scelte che si vorrebbero rimandare all’infinito, ad appuntamenti di domani che ci segnano e rovinano l’oggi.

Tutte le scuole di sopravvivenza sottolineano come l’organismo umano abbia in sé risorse incredibili che, però, vengono generalmente annullate da una mancata preparazione; mantenersi allenati sia nel fisico che nella disponibilità mentale ad accettare e affrontare il peggio è l’unico mezzo per non farsi cogliere impreparati.

Il problema fondamentale che, infatti, emerge, è che in realtà non è la difficoltà oggettiva ad abbattere l’individuo, quanto piuttosto la “certezza” di non farcela, l’angoscia mentale che attanaglia lo spirito e preclude ogni tentativo: se scegliere può significare dover prendersi carico, dover decidere e, inevitabilmente, dover abbandonare qualcosa, molto più facile è lasciare che tutto vada come deve andare, abituandosi ad un ruolo perdente di spettatore della stessa propria esistenza.

Ma se questo atteggiamento è di per sé sbagliato…

Ma se questo atteggiamento è di per sé sbagliato, orientato com’è alla passività e alla disabitudine al gusto della lotta, ci sono momenti particolari nella vita di ciascuno in cui il confronto con gli scogli dell’esistenza diventa inevitabile: tutti hanno incontrato o potrebbero incontrare la sfida difficile, l’insuccesso, la malattia, la morte di una persona cara. Questi sono dati di fatto, ci sono e non si può far finta di niente.

L’avere un problema, il subire un’ingiustizia, l’affrontare un lutto, non è una colpa, non è essere inferiori, è solo un problema: “abbiamo” un problema, non “siamo” un problema. Ciascuno ha in sé gli strumenti per affrontare le sfide della sua vita, per pilotare in prima persona il cambiamento, per andare oltre il trauma e ripartire, ogni volta, con rinnovato entusiasmo.

E sono proprio le situazioni estreme quelle che possono rivelare la chiave per capire la normale strada da percorrere, per questo si studiano quelli che “sono ancora qui”, che sono tornati. A pochi, pochissimi, sarà chiesto di dover affrontare 20 giorni di deserto senza cibo né acqua, ma a ciascuno sarà chiesto e offerto di vivere la propria vita, il proprio qui ed ora; e, proprio come in un deserto, ognuno potrà scegliere se farsi prendere dal panico, dall’ansia, dallo stress e aspettare così, passivamente, che qualcuno o qualcosa lo tiri fuori da quella situazione, oppure potrà decidere di affrontare, come hanno fatto tutti i piccoli/grandi uomini, il deserto psicologico, incontrando finalmente se stessi. E allora il deserto fiorirà e ognuno canterà il suo canto!

Lo stare bene, la felicità, non è un dono che piove dall’alto, è una conquista che va rinnovata ogni giorno, è una “dichiarazione di guerra” alla morte e alla sconfitta, è un non darsi mai per vinti. La gioia è anche lotta. Non siamo solo foglie che inesorabilmente in autunno l’albero dismette: si possono scegliere, in tutte le stagioni, i propri “alberi” e si può vivere in tutte le stagioni cantando la propria canzone.

tratto da lista Sadhana Yahoo –   (di Michele Panaro)