DOPO TRE O QUATTRO GIORNI DI RITIRO DI MEDITAZIONE, la maggior parte di noi ha superato il peggio. Di solito siamo molto più luminosi e felici di quando abbiamo iniziato il ritiro. E’ il risultato di guardarsi dentro e di stare con se stessi per tre o quattro giorni e anche se stiamo molto male, ci avviciniamo a quella sensazione e ascoltiamo veramente il nostro cuore e la nostra mente. Poi succedono delle cose piacevoli e cominciamo a rilassarci. Non è una cosa facile da fare, ma iniziamo ad accettare di più tutto il dolore e tutte le sofferenze che di solito tendiamo a mettere da parte.

Sembra che non abbiamo mai tempo per volerci bene. Sembra che avere il tempo e lo spazio per vivere in armonia con noi stessi, non sia una cosa importante da fare. Così quando siamo in ritiro, abbiamo la meravigliosa opportunità di poterci aprire, di potere ascoltare e forse di capire un po’ più profondamente la natura della nostra mente, la natura dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e delle nostre percezioni; abbiamo l’opportunità di renderci conto che queste cose ci fanno sentire limitati e repressi soltanto perché non abbiamo quasi mai l’opportunità di prestare attenzione o di indagare e interrogarci sulla loro realtà, sulla loro vera natura. Per tradizione, all’inizio di un discorso come questo, prendiamo i Tre Rifugi: nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha. Quando diventiamo monaci, senza tetto, abbandoniamo la nostra casa e prendiamo i Tre Rifugi. Così non siamo completamente senza casa. Di fatto prendiamo tre rifugi molto sicuri e ci lasciamo dietro tutto quello che ritenevamo sicuro, che consideravamo protettivo e garantito. Ci lasciamo dietro la casa, la famiglia, i soldi, il controllo delle nostre vite, il controllo delle persone con le quali viviamo, del posto in cui abitiamo; lasciamo andare tutto questo e in cambio prendiamo i Tre Rifugi.

Ebbene, all’inizio della mia esperienza, questi rifugi non avevano molto significato. Non avevo ben capito di che cosa si trattava. Durante l’anno ci sono diverse festività e cerimonie buddhiste e in quei giorni noi seguiamo una piacevole tradizione. Meditiamo tutta la notte, e prima della veglia facciamo tre giri intorno al monastero camminando lentamente e tenendo in mano una candela, dell’incenso e dei fiori. Monaci e laici camminano insieme, in silenzio, attorno al monastero, contemplando i Tre Rifugi, il Buddha, il Dhamma e il Sangha. E’ molto bello e toccante da vedere. All’inizio non sapevo proprio che cosa significasse. Riflettevo sul Buddha e avevo solo un vuoto nella mia mente, riflettevo sul Dhamma, un altro vuoto, riflettevo sul Sangha, un altro vuoto. Ma non mi sono fatta prendere dal panico. Mi sono resa conto che c’era qualcosa che non facevo come si deve e che non avevo alcuna fretta di comprendere. In quel momento sentivo di avere tutta la vita per farlo. Così mi sono rilassata e sono arrivata alla conclusione che il Buddha, il Dhamma e il Sangha non erano cose alle quali dovevo pensare. Sapevo che questi rifugi, in un certo qual modo, si trovano nel cuore degli uomini e, forse, con la pratica sarei arrivata a conoscerne il significato.

Penso che quello che porta molti di noi ad essere interessati alla pratica della meditazione sia il bisogno di comprendere se stessi, il bisogno di mettere chiarezza nella confusione in cui viviamo. Molti di noi vogliono essere liberi. Vogliamo capire, vogliamo renderci conto, vogliamo vedere da soli di che cosa si tratta. Siamo tutti stufi dei libri; abbiamo letto abbastanza, abbiamo incontrato persone sagge a sufficienza. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per capire, e tuttavia non è stato abbastanza.

Per qualche motivo, la conoscenza di seconda mano non dà vera soddisfazione. Vogliamo sperimentare personalmente quello che, tutte queste persone sagge e questi saggi insegnamenti dicono. Finché non c’è la realizzazione della verità della nostra mente, non c’è vera comprensione. E’ difficile assaporare la libertà e la gioia della conoscenza, fare esperienza degli insegnamenti del Buddha da soli, di ciò che è conosciuto come visione profonda, il vedere direttamente la vera natura della nostra mente e del nostro corpo e renderci conto della sensazione di libertà che proviamo quando lasciamo andare tutti gli attaccamenti.

All’inizio della pratica, all’inizio del sentiero, tendiamo ancora a cercare qualche forma di felicità. Tutti vogliamo essere felici, non è vero? Chi è che vuole essere infelice? Vogliamo tutti essere liberi e provare piacere. Io non sono certo entrata in monastero per essere infelice e per soffrire. Quando sono arrivata, ero abbastanza sicura che la pratica della meditazione mi avrebbe reso più felice e mi avrebbe dato molto piacere. La felicità era piacere. E questa è una cosa che dovremmo tenere in considerazione.

La pratica non è per farci soffrire. Soffriamo semplicemente perché pratichiamo in modo sbagliato, perché non abbiamo fatto quanto è necessario per lasciare andare l’ignoranza, per lasciare andare i nostri attaccamenti. Quindi è importante tenere conto di questa cosa. Non dobbiamo supporre che, da praticanti, dobbiamo essere tremendamente seri e credere che, se non proviamo qualche terribile sofferenza o difficoltà, allora c’è qualcosa che non va bene. All’inizio della mia formazione idee di questo genere mi hanno fatto soffrire moltissimo. Avevo l’impressione che se non avessi attraversato qualche difficoltà non sarei stata capace di lasciare andare. E il più delle volte è vero che se l’ignoranza non fa male non è riconosciuta; se non fa male, possiamo andare avanti per sempre senza esserne veramente consapevoli. Sembra che sia questa la nostra difficile condizione umana. Se qualcosa non ci fa male, non ci svegliamo veramente, non apriamo gli occhi per guardare.

Così ogni giorno recitiamo i Tre Rifugi come promemoria, perché senza questa abitudine tendiamo a prendere rifugio in cose come la rabbia e l’ansia. Abbiamo la tendenza a prendere rifugio nell’auto commiserazione o nel piacere, nella distrazione, nell’ossessione di noi stessi o nel volere dormire o mangiare tutto il tempo. Prendiamo un sacco di rifugio nel cibo, non è vero? E poi, prendiamo rifugio nel sentirci in colpa per avere mangiato. Così la nostra tendenza è di prendere rifugio nelle cose sbagliate, cose che ci rendono infelici. E se non avessimo sollecitazioni, se non avessimo mezzi abili, per riportare alla coscienza ciò che è veramente importante nella vita, ci dimenticheremmo di noi stessi e non vedremmo mai una via d’uscita dalla sofferenza.

Prendere rifugio – Introduzione
Prendere rifugio – nel Buddha
Prendere rifugio – nel Dhamma
Prendere rifugio – nel Dhamma (2 parte)
Prendere rifugio – nel Sangha

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(di Sister Ajahn Sundara)

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© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis

[Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.]

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