Discorso tenuto a Morlupo il 1 novembre 1999.

Questa sera, nella riflessione sulla pratica, vorrei mettere in rilievo il suo luogo, quello speciale laboratorio che si trova nel nostro cuore e nella nostra mente. Attraverso la consapevolezza intuitiva, facciamo attenzione a come sono le cose, rendendocene pienamente coscienti, perché in realtà non siamo consapevoli di molta parte della vita. Possiamo renderci conto di come il condizionamento della mente ci predisponga a fare l’esperienza delle cose solo attraverso certe percezioni; quando le cose non rientrano nella nostra sfera di esperienza, nel nostro modo di percepirle, tendiamo a non notarle. Un essere umano molto condizionato è qualcuno che sperimenta la vita attraverso le condizioni che ha acquisito, tende a vedere e a interpretare la vita attraverso i presupposti, le distorsioni, le percezioni che gli sono propri e che ha acquisito a causa del suo condizionamento sociale e culturale.

Ecco perché un condizionamento etnico molto conservatore, o un approccio alla vita essenzialmente fondamentalista, si basano sulla convinzione che una certa condizione è la sola giusta e ciò con cui non sono d’accordo viene liquidato come sbagliato, come qualcosa di eretico, di alieno, come il nemico. Abbiamo, dunque, paura di ciò che è straniero, alieno, o diverso, o di quello che non conosciamo, l’ignoto, l’incerto, l’estraneo; molti vogliono liberarsi di tutto questo, vogliono espellerlo o evitarlo.

Chi vive la sua vita in modo molto conservatore si sente minacciato da qualsiasi genere di comportamento inusuale, lo considera anormale ed estraneo e teme i valori alieni, perché sono aspetti ignoti nella sua vita, e nel suo condizionamento culturale c’è una sorta di certezza in cui si aspetta che le cose rientrino, che confermino la sua visione della vita, per poter essere d’accordo e accettarle.

Quando vivevo in Thailandia, notavo che alcuni occidentali, a causa della diversità di condizionamento, del linguaggio diverso, della differenza climatica, alimentare, della grande diversità culturale dalla società europea, erano presi dal panico, dalla paura, perché erano entrati in contatto con condizioni ed esperienze diverse per qualità da ciò a cui erano abituati, lo chiamavano ‘shock culturale’.

Lo stesso vale per gli approcci fondamentalisti alla religione: avvicinandoci alla fine del millennio, al periodo apocalittico, che presenta aspetti sconosciuti e incerti, diventano sempre più popolari le religioni fondamentaliste, i modi di vedere l’esperienza in termini rigidi, dove siamo tutti d’accordo che le nostre percezioni sono quelle giuste, e che tutto quello che non vi rientra è sbagliato.

Volerci sentire sicuri, avere la sensazione di sapere esattamente cos’è bene e cos’è male, cos’è vero e cos’è falso, come qualcosa che ci viene dato dall’esterno, è uno degli aspetti umani che più abbiamo in comune, quando i tempi diventano più incerti e l’ignoto ci spaventa. Talvolta proviamo una forte tentazione a far parte di qualche organizzazione, dove ci si dica esattamente come vestirci, cosa dire, come comportarsi, come pensare e dove, in certo modo, ogni cosa è per noi già predisposta nella maniera accettabile e non resta che adattarvisi: tutto questo crea un senso di sicurezza.

La sensazione di non sapere, l’insicurezza, l’incertezza sono condizioni della mente che cominciamo a riconoscere, quando ci apriamo alla consapevolezza intuitiva. Usiamo perfino metodi, modi per sviluppare la capacità di non conoscere. In alcune forme di buddhismo Zen ci si pongono deliberatamente domande impossibili, a cui non c’è risposta. O in alcuni insegnamenti Vedanta si usano domande quali: “Chi sono io?”. Un approccio in cui continui a chiederti: “Chi sono?”. O si viene posti in situazioni in cui la sicurezza e la certezza della propria vita sono spazzate via e per sopravvivere puoi contare solo sulla capacità intuitiva della mente.

È una realizzazione importante contemplare il futuro come ignoto, sapere che il futuro è l’ignoto, che non si sa. Per esempio, fatevi la domanda: “Chi sono?”. Cosa succede? La mente pensante si arresta. Vi chiedete: “Chi sono io?” e si crea un vuoto, non è vero? C’è un’interruzione nella nostra mente pensante che si ferma. Sono consapevole di questa specie di vuoto, quando finisce la domanda e si avverte il vuoto. E investo di consapevolezza questo vuoto, voglio conoscere questo vuoto nel pensiero, in cui il pensiero non è presente, ma c’è questa sorta di spazio. Dopo quel vuoto, la mente pensante ricomincia: “Be’, sono Ajahn Sumedho”, o qualcosa del genere, ma questo lo so già, quello che cerco non è una risposta, voglio essere consapevole di quel vuoto, di quello spazio.

È un modo per imparare realmente a essere consapevoli, per accogliere quella sorta di vacuità della mente, in modo che il non pensiero venga registrato dalla coscienza.

Un altro modo è porsi la domanda: “E poi? Che altro?”. E la mente pensante si ferma. Non mi interessa veramente cosa ci sarà dopo, cosa succederà, quello che mi interessa è l’arrestarsi della mente pensante, il vuoto, in modo da poterlo registrare, da notarlo: è così, così è fatto il non pensiero. E allora lo conservo nella consapevolezza intuitiva, nella coscienza. Questa pratica ci permette di riconoscere, di essere pienamente consapevoli e coscienti di quando il pensiero si ferma, degli spazi tra le parole, del silenzio alla fine della domanda, e della sensazione di dubbio e di incertezza da cui si è sorpresi, dell’insicurezza, di tutti gli stati mentali che ci procurano la sensazione di non sapere, in cui il pensiero non funziona più, ma la consapevolezza opera ancora.

Anche il suono del silenzio è un altro modo per arrivare allo stesso scopo, in quanto ci si sintonizza sul suono primordiale, cosmico, metafisico e il processo del pensiero si ferma quando si riposa in questo stato di attenzione. Riguardo al suono del silenzio, è importante dargli significato, perché per alcuni è solo un ronzio nelle orecchie. E un ronzio nelle orecchie non sembra molto importante, sembra piuttosto qualcosa di cui ci vorremmo disfare. O per cui conviene andare dal dottore. Se lo sperimentiamo come un ronzio nelle orecchie, finisce per diventare un disturbo, finiamo per sentirci infastiditi o ostili. Il suono del silenzio ha spesso ispirato la poesia dei Sufi. Non ricordo se fosse Rumi o Kabir che ha descritto, in una poesia, il suono del silenzio come lo scintillio di un milione di stelle. È stato chiamato la voce di Dio o il flauto di Krishna. O gli si può attribuire un nome più scientifico come la soglia dell’udibilità.

Quando lo prendiamo in considerazione in modo più poetico o in termini positivi, gli attribuiamo un significato, qualcosa di cui ricerchiamo la compagnia, qualcosa a cui diamo valore.

Negli anni scorsi ho cominciato una corrispondenza con un carcerato di una prigione del Texas. Era interessato alla meditazione e continuava a lamentarsi di un ronzio alle orecchie; nonostante io continuassi a ripetergli che quel ronzio era un grande dono, lui continuava a chiedermi: “Dimmi cosa devo fare per liberarmene”. Io continuavo a sottolineargliene la bellezza e lui mi rispose: “Da quando ho cominciato a scriverti, non posso liberarmi da questo ronzio”.

Questo carcerato sta evidentemente mettendo in atto una resistenza, ha un intenso desiderio di liberarsi del ronzio. Si è fatto un’idea della meditazione come di uno stato mentale colmo di pace, tranquillo e totalmente quieto, senza ronzio. Ma attraverso la pratica di meditazione di visione profonda, o consapevolezza intuitiva, non si fa che notare il modo in cui le cose sono, l’attitudine verso il momento presente è l’accettazione, e quindi, anche nel caso in cui senti che stai opponendo resistenza, anche in quel caso sei disposto ad accettare questa resistenza.

Abbiamo tutti diverse tendenze di carattere, la mia personale tendenza è di opporre resistenza alla vita: il modo in cui tendevo a relazionarmi all’esperienza, quando ero laico, si manifestava, in generale, attraverso il tentativo di oppormi e di controllare le cose. Quindi, notavo che le mie aspirazioni religiose andavano più verso un desiderio di annichilimento che di felicità. Mia madre, da buona cristiana, era l’opposto, mirava alla felicità eterna. Aveva un’enorme fede nell’insegnamento cristiano, una fede tale che pensava che, una volta morta, avrebbe vissuto con Dio in uno stato di permanente felicità. Non era una cosa che io desiderassi particolarmente, non mi attraeva, quello che volevo io era una sorta di sparizione nel vuoto.

Notando questa tendenza nella mia vita monastica, che si manifestava come desiderio di liberarmi delle cose, desiderio di non esistere, desiderio di non essere niente, scoprii che questa tendenza verso ciò che chiamiamo annichilimento, o nichilismo, era un desiderio molto forte. E divenni consapevole, attraverso la consapevolezza intuitiva, attraverso la pratica della presenza mentale, di una sorta di resistenza automatica alle cose. Potevo avvertire interiormente me stesso che cercavo di spingere la vita lontano da me. Attraverso la consapevolezza, cominciai ad accorgermi che questa attitudine si manifestava a livello sottile, non era un rifiuto intenzionale di qualcosa, era più che altro una reazione inconscia.

Cominciando a riconoscere e ad accorgermi della sofferenza che questa resistenza alla vita produceva, fui in grado di lasciarla andare, mi fu possibile smettere di farlo; quando riuscii a vedere me stesso mettere in atto questa resistenza e potei accoglierla come un’esperienza pienamente cosciente, solo allora mi fu possibile lasciarla andare.

Con l’esperienza intuitiva, inoltre, si deve rinunciare a cercare di descriverla e semplicemente realizzarla entro i limiti a cui siamo soggetti nella condizione umana. È un fatto su cui riflettere, per esempio, contemplando la nostra attuale esistenza, come entità coscienti, una singola entità cosciente nell’universo. È questo la nascita, quando nasciamo come esseri umani, viviamo dentro questa restrizione dell’essere un’entità, apparentemente separata e indipendente, un’entità cosciente in questo vasto sistema dell’universo.

Questo significa, che durante la vita di questo corpo, ogni sorta di cose influiranno su di esso, dal giorno in cui nasciamo fino al giorno in cui moriamo, questo breve tratto di vita viene sperimentato come un continuo urto, una sorta di irritazione su una forma sensibile. Questo significa che siamo sempre soggetti alla sensazione di essere agitati, irritati, in qualche modo, dalle cose che influiscono sulla vista, l’udito, l’odorato, il gusto, il tatto e infine sicuramente anche le nostre incessanti abitudini emozionali e di pensiero.

È anche importante considerare come in questo momento, prendendo me stesso come esempio, questa entità conscia è qui e voi siete nella mia mente. Anche se a livello convenzionale, voi siete seduti qui, e siamo tutti ugualmente individui umani di questo gruppo, in termini di esperienza diretta, voi siete nella mia mente, andate e venite e influite su di me. In termini di realtà, in questo momento, ognuno di noi è il centro dell’universo. Non è un’affermazione tronfia o un’esaltazione egoica, ma un invito a riflettere.

Riguardo alla relazione con qualcun altro, per quanto intima possa essere questa relazione, in termini di esperienza, l’altro va e viene nella nostra mente. È semplicemente così, è così che sperimentiamo la vita in quanto entità consapevoli nell’universo.

Quando prendiamo le cose personalmente, in questo caso la personalità non si basa sulla riflessione riguardo all’essere il centro dell’universo, la nostra personalità si basa sul confrontare noi stessi alle idee e alle aspettative delle altre persone e della società in cui viviamo.

In questo momento io sono al centro dell’universo, questa è la mia esperienza attraverso la vista, quello che vedo, essendo adesso notte fuori, è che c’è luce in questa stanza, quindi riesco a vedere con chiarezza le persone sedute in fondo alla stanza, riesco a vedere le finestre e questa visione mi fa sentire al sicuro, dentro a una stanza illuminata, anche nel mezzo di questo vasto, buio universo che le sta attorno.

Ma mi ricordo di quando come monaco vivevo nella foresta, nell’oscurità della foresta e non c’era luce, non c’era la luna, ed era completamente buio. Sedevo nell’oscurità, fissavo il buio, e non riuscivo a vedere assolutamente niente, non potevo nemmeno scorgere la mia mano di fronte agli occhi. E sentivo un’incredibile paura sorgere nella mia mente, perché sedere là come il centro dell’universo, un’entità cosciente e il centro di un’oscurità completa, era terrificante, perché nel buio ci poteva essere qualsiasi cosa, magari serpenti velenosi, o insetti, o anche fantasmi, tigri, chissà. Ci poteva essere qualunque cosa, perché non potevo vedere, e l’immaginazione cominciava a creare infinite possibilità terrificanti, presenze ignote nel buio. Nella tradizione thailandese, avevamo quelli che sono chiamati ombrelli ‘tudong’, fatti di bambù, che possono essere appesi sotto un albero e così creare una specie di zanzariera che pende dall’ombrello. Allora, io ero tanto in preda alla paura che mi infilavo sotto la zanzariera e accendevo una candela e la candela illuminava lo spazio dentro la zanzariera, in modo che potevo vedere tutto entro quel minuscolo piccolo cerchio che stava sotto l’ombrello recintato dalla zanzariera. E la paura scompariva completamente, perché avevo la sensazione di essere nella luce, potevo di nuovo vedere, potevo vedere quello che rientrava nell’area intorno a me.

Anche se ero sicuro che se ci fossero state tigri o serpenti, la zanzariera non li avrebbe fermati, avevo lo stesso l’illusione di essere nella luce, proprio come in questa stanza: abbiamo la sensazione di sapere dove sia ognuno di noi, ma cosa accadrebbe se all’improvviso mancasse l’elettricità e restassimo bloccati in questa stanza buia?

Talvolta, basta uscire di notte e guardare l’immensità del cielo, il fatto che sia così vasto, che l’universo in cui viviamo sia così sconfinato, e noi non possiamo in realtà capirlo, non possiamo realmente conoscerlo. Talvolta ci sentiamo rapiti o presi dalla meraviglia davanti al mistero e alla maestosità dell’universo, che possiamo percepire, ma non conoscere.

Nella pratica di presenza mentale, di consapevolezza intuitiva, non abbiamo bisogno di conoscere niente riguardo a nient’altro, abbiamo solo bisogno di conoscere le cose come sono in questo preciso momento, entro la limitazione del corpo umano, della coscienza sensoriale, sentendo ciò che è presente, ciò che possiamo osservare ora. Il Buddha paragonava il suo insegnamento delle Quattro Nobili Verità a una manciata di foglie: non sono tutte le foglie della foresta, è solo una manciata. Entro la limitatezza della nostra coscienza umana, non possiamo relazionarci con tutte le foglie della foresta, o contare tutti i granelli di sabbia del fiume Gange.

Quello che stiamo facendo è imparare da questa manciata di foglie, che in realtà è come il corpo, la coscienza, le esperienze sensoriali, il modo in cui sono le cose, per come le possiamo sperimentare direttamente nel momento presente. È un’esperienza che rende molto umili, perché il percorso spirituale non fa inorgoglire, non fa diventare un essere spirituale altamente evoluto che fluttua per aria, qualcuno al di sopra di tutti gli altri. Non diventiamo esseri fantastici spiritualmente evoluti, giacché la nostra meta, la vera misura della visione spirituale, inclina a una profonda umiltà. Ci si sente paghi, grati di piccole cose; anziché cercare di sapere tutto su qualsiasi cosa, anziché essere un’autorità, un esperto, si è più consapevoli di non sapere, e che non è necessario sapere tutto, basta conoscere la differenza tra il condizionato di cui facciamo ora esperienza e l’incondizionato.

Ora sono monaco da trentatre anni e il risultato di trentatre anni di pratica come monaco buddhista è che so di non sapere. So che c’è la sofferenza, quando è presente, e conosco le cause della sofferenza, e so quando la sofferenza non c’è. E so quando la mia personalità è attiva e quando non c’è persona. È la diretta conoscenza di ciò che chiamiamo ñana dassana, la conoscenza e la saggezza che provengono dalla comprensione intuitiva diretta, dall’osservazione, anziché dal collezionare conoscenze sulle cose. Il mio insegnante in Thailandia, Ajahn Chah, una volta mi raccontò che quando iniziò a praticare la meditazione disse al suo maestro: “Stai cercando di farmi diventare stupido”. È curioso che Ajahn Chah e il suo miglior amico di quel piccolo paese a nord est della Thailandia vennero ordinati insieme monaci. Risiedettero entrambi nel monastero del villaggio e studiarono il pali e gli insegnamenti fondamentali del Dhamma e dopo cinque anni Ajahn Chah andò nella foresta per praticare la meditazione, e il suo amico si recò a Bangkok per studiare l’Abhidhamma e la lingua pali all’università buddhista.

Quando incontrai Ajahn Chah, allora vivevamo a Ubon, una provincia del nord est, talvolta il suo amico, quando c’era qualche cerimonia, ritornava a far visita ad Ajahn Chah. E a quel tempo, quello che era stato il monaco partito alla volta di Bangkok, aveva ottenuto i titoli accademici più alti negli studi dell’Abhidhamma, c’erano nove livelli di conseguimento e li aveva ottenuti tutti e nove nello studio dell’Abhidhamma, che è una psicologia molto complessa, come anche nello studio del pali, ed era piuttosto noto per la sua erudizione. Ma Ajahn Chah mi diceva: “Vedi, dopo tutti questi anni lui non ha veramente capito”. E doveva affidarsi ad Ajahn Chah per la sua saggezza. Questa è la conoscenza diretta, che non sembra essere tenuta in grande valore nel mondo. Non ci farà vincere il premio Nobel, né ottenere alcuna onorificenza, ma in termini di realizzazione della verità e di liberazione dalla sofferenza, è al di là di qualsiasi riconoscimento. E se siete disposti a imparare anche solo questo, allora sentirete di aver imparato tutto quello che è necessario sapere, tutto quello che è davvero necessario conoscere.

Questa è la riflessione che vi offro per questa sera.

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Samira Coccon e Chandra Candiani