Riflettere sul tornare al centro … il che significa che ciascuno di noi, in questo momento, è il centro dell’universo. Non è un’interpretazione soggettiva, in questo momento è una realtà. Voi siete, nel contesto della mia esperienza del presente, l’oggetto; il centro è qui e ora, in questo punto qui. Sto riflettendo sulla presenza, il punto dove facciamo esperienza della vita; la coscienza è sempre da questo punto … la consapevolezza qui e ora. Ciascuno di noi è una forma distinta nell’universo, ma per tutta la vita facciamo esperienza dell’universo da questo centro, ovunque ci capiti di essere: qui, in un kuti, in cima a una montagna, all’aeroporto …

Riflettere sul centro: non è un punto nello spazio, è la realtà del nostro essere. Tradotto sul piano personale (“Io sono il centro dell’universo”), suona come una fantasia grandiosa di essere il più importante, Dio, o una speciale prerogativa. Ma è del tutto normale, perché ciascuno di noi, ciascuna creatura, è effettivamente il centro dell’universo sul piano del vissuto. Anche una pulce è un essere cosciente, ed esperisce la coscienza da questo punto, che sia ospite di un cane o di un gatto. Non credo che le pulci abbiano uno spiccato senso di individualità, dato che non pensano abbastanza. Ma non essendo una pulce, non posso parlare per loro. Posso parlare per me … e io sono un essere umano qualunque. Non ho niente di speciale, considerando i miliardi di persone che popolano il pianeta. Sto parlando in termini convenzionali: “Sono uno degli innumerevoli abitanti del pianeta”, il che indubbiamente è vero. Non è un’affermazione sbagliata o falsa, ma corrisponde davvero ai fatti? Quello che capita a questa forma è il mio vissuto, di conseguenza conta, anche se, su scala macrocosmica, sono una pulce che non conta granché nell’universo.

Se morissi sul colpo, per l’universo non sarebbe un grave perdita. Lo noterebbero in pochi. Come quando muore una pulce: a chi importa? Anzi, magari siamo contenti. Vedere pulci morte potrebbe essere meglio che vederle vive. Ma in termini di esperienza, ed è di questo che parlo, questo punto è l’esperienza del qui e ora. Dunque lo stato di risveglio, la consapevolezza, è la capacità che abbiamo di riflettere sull’esperienza, non in base alle preferenze e opinioni personali, ma dalla posizione del Buddha che conosce il Dhamma. La coscienza in una forma separata è l’esperienza del conoscere. Ed è questo che abbiamo fatto durante il ritiro, conoscere le cose come sono, invece che per sentito dire, invece di formulare opinioni e punti di vista soggettivi: “Io mi sento … le mie idee al riguardo … il mio corpo sente …”. I pensieri abituali e il linguaggio si basano in gran parte sull’idea di io e mio. Ma oltre il pensiero e il linguaggio, quando smettiamo di pensare, la presenza c’è ancora, vero?

Quando penso: “Sono Ajahn Sumedho”, e mi faccio coinvolgere dalle associazioni di quel pensiero e l’attaccamento a quella particolare percezione di me, la consapevolezza c’è ancora, ed è la via d’accesso al senza morte. È l’occasione, la crepa nel samsāra, la via di scampo dalla schiavitù e dalla sollecitazione costante delle nostre abitudini. Pensare è un’abitudine; l’idea di me stesso come persona è un’abitudine. Le abitudini personali sono sakkāya-ditthi, sīlabbata-parāmāsa e vicikicchā, i primi tre dei dieci vincoli, o samyojana, in pāli. Questi tre vincoli vanno superati, compresi a fondo. Allora si realizza il sentiero: è l’entrata nella corrente, o sotāpatti. Il punto è riconoscere i vincoli, piuttosto che disfarsene cancellando tutto, svuotando la mente; poterli osservare, invece di subirli passivamente e diventare una personalità, le convenzioni e i pensieri o il processo discorsivo.

Si tratta quindi di indagare la natura del sé, di esaminare, osservare il sé, piuttosto che partire dal presupposto di non dover avere un sé o non dover pensare a se stessi … che dipende dal pensiero. Se credo all’anattā, se credo al non sé, considero me stesso come un oggetto di cui disfarmi, non tanto da comprendere. Comprendere nel senso della prima nobile verità, comprendere dukkha, comprendere [understanding] il sé, ‘sostenere’ [standing under] il sé, osservarlo. Lo stesso pensiero: “Sono Ajahn Sumedho”, è un oggetto nella mia mente. Posso pensarlo, ma al tempo stesso, se sono consapevole, posso osservarlo, essere testimone di quel pensiero. Nel Dhammapada c’è un verso su cui ho riflettuto per anni: “Appamādo amatapadam“, “La consapevolezza è la via del senza morte”. Appamādo è l’opposto della noncuranza, è prestare attenzione, essere presenti. Amata è il senza morte. Per me ha sempre avuto un significato particolare. Quando leggevo il Dhammapada o i sutta queste parole mi suscitavano una forte risonanza, risaltavano.

Ci sono moltissimi testi nel buddhismo; il Tipitaka (il canone pāli) è sterminato. Quando cominci a leggerlo ti ci perdi dentro … non ce la farai mai a finirlo tutto. Ma poi ti fidi della tua intuizione nella vita, di quello che ha veramente significato per te, che risalta, che richiama la tua attenzione quando leggi i sutta o il Dhammapada. Nel Sutta Nipāta c’è un verso che dice: “C’è un isola, un’isola oltre la quale non puoi andare” (v. 1094). È una metafora che ho sempre trovato molto significativa. Un’isola oltre la quale non puoi andare, il punto centrale: oltre questo non si può andare. Una volta raggiunto il centro, una volta riconosciuto il centro, quando poi te ne allontani sei tornato sulla circonferenza. La metafora dell’isola suggerisce questo. O il concetto di axis mundi, il centro dell’universo, del mondo.

Se non riconosciamo il punto centrale, restiamo sempre sulla circonferenza, restiamo sempre nel samsāra. Cercheremo il centro, ma lo cercheremo sempre sulla circonferenza, invece di essere il centro. Quindi la consapevolezza, prendere rifugio nel Buddha, Dhamma, Sangha, non è rifugiarsi in qualcosa che sta sulla circonferenza del pensiero o dell’universo, in entità non meglio definite o energie invisibili di cui presumiamo, o mettiamo in dubbio, l’esistenza. Sono concetti che servono a ricordarci il centro di questo momento, il centro dell’essere presenti qui e ora. Dal centro, se la mia personalità si trova sulla circonferenza del samsāra, mi conoscete in quanto persona. Le convenzioni, anche quelle del buddhismo theravāda, sono fuori, nel mondo convenzionale, nel samsāra. Quindi lo scopo non è legarsi alle convenzioni buddhiste, ma metterle al servizio della consapevolezza, del tornare al centro.

Con sīlabbata-parāmāsa, il secondo vincolo, l’attaccamento ignorante alle convenzioni, ci leghiamo alle convenzioni. Nel mondo buddhista abbiamo opinioni contrastanti. In Inghilterra ci sono opinioni nette, opinioni settarie, opinioni pro o contro l’hīnayāna, il mahāyāna, il buddhismo tibetano, il vajrayāna, lo zen. Poi ci sono l’advaita, la bhakti, il sufismo, il misticismo cristiano, i testimoni di Geova, i mormoni. Ci attacchiamo molto a una particolare convenzione. Diventiamo la convenzione, e questo è un vincolo, un impedimento. Inoltre è separativo. Se la mia principale identità consiste nell’essere un buddhista theravāda, il mahāyāna mi sembrerà un’altra cosa. Avrò certe opinioni sul theravāda e se incontro qualcuno che si professa mahāyāna lo riterrò diverso da me. Lo stesso dicasi per un cristiano, o un mormone. Perfino nell’ambito del theravāda i punti di vista e le opinioni abbondano.

“L’insegnamento del Buddha è così”, “Questo è il vero insegnamento”, e queste frasi, questi pronunciamenti ex cattedra, mi portano ad asserire che la mia via è quella giusta. Nel theravāda, una pletora di opinioni e punti di vista genera divisione, separazione e attaccamento alle convenzioni. È separativo. Quindi, che cosa è unitivo in questo momento, dov’è che non divido, che non giudico dal versante soggettivo delle mie preferenze personali? Al livello personale ho le mie preferenze, lo ammetto. Ho scelto di seguire la tradizione theravāda perché mi attrae. È una preferenza personale, ma ne sono cosciente. Non deve per forza tradursi in attaccamento. In genere si adotta la convenzione da cui ci si sente attratti, con cui si sente un’affinità. E poi: “Dovete fare esattamente come me, non c’è altra via che il buddhismo theravāda, perché io ci sono arrivato per quella strada e tutte le altre sono eresie o illusioni”. E questo è separativo, vero? È un’altra opinione personale.

Quindi, prendendo atto di questo, il centro non ha opinioni. Perché nasca un’opinione devo diventare ‘Ajahn Sumedho’ ed esprimermi di conseguenza … siamo tornati ai tre vincoli di sakkāya-ditthi, sīlabbata-parāmāsa e vicikicchā. Anche se una convenzione come quella del theravāda è utile, l’attaccamento alla convenzione è un vincolo. Un vincolo lega, limita, separa. Il vincolo non è la convenzione di per sé, bensì l’ignoranza e l’attaccamento alla convenzione, che di per sé è solo un abile mezzo, un espediente, non un fine. Se la considero un fine, mi sentirò in dovere di persuadere tutti a diventare buddhisti theravāda, e se non lo fanno, li taccerò di apostasia, eresia, di non essere veri buddhisti. Creerò una separazione. Sostengo di aver ragione, e se non siete d’accordo con me avete torto, ovviamente.

Ragione e torto sono frutto del pensiero; vero e falso, bene male, sono frutto del processo discorsivo, dell’intelletto discriminante. Il termine vicikiccā si traduce con ‘dubbio’. E come nasce il dubbio? Pensando. Se pensate troppo, dubiterete continuamente. Perché il linguaggio è così, è una nostra proiezione, è un artificio, una creazione culturale; la convenzione, l’io, sono aggiunte al presente. Io creo me stesso nel presente. “Sono Ajahn Sumedho, un buddhista theravāda”. E poi, se mi lego a quelle opinioni, mi faccio guidare dall’ignoranza, avijjā, il non conoscere il Dhamma.

Potrei conoscere il Dhamma a perfezione con una mente condizionata dal theravāda. Potrei essere uno studioso di pāli o un esperto di buddhismo theravāda. Potrei sapere tutto sul tema, scrivere manuali universitari e via dicendo. Quindi, riflettendo sul mondo delle convenzioni, sīlabbata-parāmāsa è una parola interessante, che di solito si traduce con ‘attaccamento ai riti e alle cerimonie’. Fra molti buddhisti occidentali si nota una certa arroganza. Non siamo buddhisti per cultura o per nascita, lo abbiamo scelto. Quindi, le liturgie a base di inchini, canti e bastoncini di incenso non suscitano il nostro attaccamento. Anzi, preferiremmo evitarle. Non mi sono mai illuso che i riti e i canti potessero darmi l’illuminazione o purificarmi, non fa parte del mio condizionamento culturale. Perciò gli occidentali arroganti disprezzano il lato devozionale della convenzione buddhista e presumono di essere esenti da attaccamenti, come se il vincolo di sīlabbata-parāmāsa non li riguardasse. Conoscete la storia di sputare sulla statua del Buddha, o il detto: “Se incontri il Buddha, uccidilo”. Noi non avremmo nulla in contrario, perché potremmo sempre sostenere che ai tempi del Buddha non c’erano statue del Buddha. Certi buddhisti inglesi le condannano, dicendo che non è vero buddhismo, ma sīlabbata-parāmāsa, e che a loro non servono le statue del Buddha. È un’altra opinione, vero?

Sul piano della riflessione, della consapevolezza, mi chiedo se ho pregiudizi contro le statue del Buddha, e comincio a prenderne coscienza. Che cos’è? Perché ce l’ho? In realtà, a me le statue del Buddha piacciono, quindi me ne circondo; a me non hanno mai dato problemi, ma a qualcun altro sì. Ci sono i puristi, che vogliono che tutto si conformi alla loro idea di cosa ha veramente insegnato il Buddha secondo i sutta, o il Canone. Ma come diceva Ajahn Chah: “Vero, ma non giusto. Giusto, ma non vero”. L’ho sempre trovato utilissimo, perché è tanto facile sentirsi nel giusto, pretendere di aver ragione, e attaccandosi all’avere ragione diventare negligenti. Se insisto che la mia opinione è giusta, dimentico il momento presente, e assumo una prospettiva dogmatica.

Il dogmatismo è il pericolo di tutte le convenzioni religiose. Ho ragione, quindi dev’essere così, altrimenti è sbagliato. Un’altra forma di dualismo, vero? Ragione e torto, bene e male, vero e falso. L’unico modo per essere obiettivi su torto e ragione, vero e falso, è esserne consapevoli. Perché la consapevolezza non critica, non discrimina. Non decide se è giusto o sbagliato, ma discerne le cose come sono. Quindi, se entro in un tempio, vedo una statua del Buddha e ritengo che sia un caso di sīlabbata-parāmāsa, attaccamento ai riti e alle cerimonie, potrei avere ragione, potrebbe darsi che quella gente sia attaccata alla forma del buddhismo. Ma ci si può attaccare alle proprie opinioni, e anche questo è sīlabbata-parāmāsa: l’attaccamento alla mia interpretazione delle scritture, alla linea del partito, alla tradizione, al punto di vista. Quindi è l’attaccamento, il fenomeno che il Buddha ci incoraggiava a osservare, sakkāya-ditthi, l’attaccamento all’illusione del sé come anima permanente e separata, a ‘me’ come persona permanente. E l’attaccamento alla convenzione, l’attaccamento alla razionalità, al processo discorsivo, alle opinioni e punti di vista sul torto e la ragione, il bene e il male.

Quindi nel corso del ritiro insisto su questo punto: vedere l’attaccamento, riconoscere ciò che si definisce upādāna, l’attaccamento o la fissazione che derivano dall’ignoranza, per poter penetrare la natura del sentiero, o ‘entrare nella corrente’. Non si tratta di fare tutto nel modo giusto, disfarsi delle statue del Buddha, dei riti e delle cerimonie, annullare la propria personalità e smettere di pensare per non attaccarsi ai pensieri. Provate a farlo, provate a smettere di pensare, pensando: “Non dovrei pensare”… state ancora pensando. A prescindere da quanto pensi di non dover pensare, continuo a pensare; non è sbagliato, ma non mi sveglio a quello che sto facendo, alle cose come sono. Il processo discorsivo è un oggetto nella coscienza. Le statue del Buddha o la loro assenza, l’io, sakkāya-ditthi, vengono visti in termini di Dhamma.

Dhamma, dunque, è il modo di essere, il sorgere e cessare, di tutte le condizioni. “Sabbe sankhārā aniccā” non è aggrapparsi all’opinione che tutte le condizioni sono impermanenti, è osservare, essere testimone dell’impermanenza. L’impermanenza è così. L’opinione che non dovrebbero esistere statue del Buddha, è un’opinione che sorge e cessa, quindi il rifugio è nella consapevolezza di quell’opinione. L’opinione può essere: “Dovete avere statue del Buddha, dovete cantare in pāli, altrimenti non è vero theravāda”.

I quattro stadi del sentiero (di chi è entrato nella corrente, del sakadāgāmī, dell’anāgāmī e dell’arahant) hanno a che vedere con il riflettere sui dieci vincoli, non con il diventare, con ‘me’ che divento uno di questi stadi. Nella maggior parte dei casi, se sakkāya-ditthi, sīlabbata-parāmāsa e vicikicchā non vengono capiti e superati, l’errore è cercare di diventare ‘uno che è entrato nella corrente’ o di diventare un arahant. Oppure, credere di non poterci riuscire: “Non posso farcela, ho così tanti attaccamenti che non vedo come sia possibile. E poi, c’è davvero qualcuno che è ‘entrato nella corrente’?”. Quando vivevo in Thailandia, gli occidentali venivano a chiedermi se Ajahn Chah fosse un arahant. A volte l’arroganza dei buddhisti occidentali lascia esterrefatti: vanno in Thailandia a cercare gli arahant e poi decidono che non ce ne sono. Ma da cosa si riconosce un arahant? Dovrebbe avere l’aureola, emettere luce dorata?

Alcuni monaci affermano di essere arahant, e la gente specula se sia vero o no. A volte, i monaci che si proclamano arahant non si comportano come tali; ma come si comporta un arahant? Usiamo il termine per riferirci all’eterea immagine di un santo, a una figura spirituale che abbiamo visto in un dipinto, a un sublime ideale di perfezione umana? O forse il Buddha usava parole come queste non in funzione dell’identità e del divenire, ma in funzione del lasciar andare? Quindi, come per i vincoli, non si diventa un sotāpanna; si lascia andare l’ignoranza, i vincoli che ottenebrano. I primi tre vincoli vengono lasciati andare grazie alla comprensione, mettendosi nella prospettiva del Buddha che conosce il Dhamma, piuttosto che in quella di qualcuno che cerca di disfarsene o di distaccarsene.

Ecco perché sviluppare la fede e la fiducia nella consapevolezza è così importante. Posso ancora avere opinioni, punti di vista e preferenze, fa parte della personalità. Ma la consapevolezza li pone nella giusta prospettiva. Non mi aggrappo alle mie opinioni giudicando tutto attraverso il filtro separativo del: “Io ho ragione, tu hai torto”. In un dualismo come questo, la personalità mi separa: la mia personalità è diversa dalla tua. Le convenzioni possono avere un forte effetto separativo. Il settarismo è un problema: sunniti e sciiti, cattolici e protestanti, buddhisti e cristiani, indù e musulmani. La separazione ha luogo a causa dell’ignoranza che ci fa attaccare alle nostre consuetudini, al nostro credo, alla nostra convenzione, alla nostra opinione, e infine all’attaccamento stesso. Nessuna di queste convenzioni è un male, di per sé, di solito hanno tutte una certa validità, ma attaccarvisi per ignoranza è un problema.

Quindi è un punto su cui riflettere. Cos’è l’attaccamento al concetto di personalità, alle convenzioni, al condizionamento culturale? Siamo condizionati culturalmente fin dall’infanzia. Sono nato a Seattle da una famiglia bianca anglicana di classe media, e le opinioni dei miei genitori, le aspettative culturali, il senso di cosa è giusto e sbagliato, di cosa si fa e non si fa, derivano da lì. Non le avevo alla nascita. Se fossi nato altrove sarei diverso, con una cultura diversa, una diversa religione, e quello sarebbe il mio condizionamento culturale. Il condizionamento culturale comincia a operare fin dalla nascita, quindi è difficile superarlo, a volte.

Ci sono talmente tanti pregiudizi e atteggiamenti culturali che ci vengono instillati fin da quando siamo piccolissimi, come dev’essere una femmina, come dev’essere un maschio, le buone maniere, cosa è giusto e cosa sbagliato, le aspettative dei genitori, della classe sociale di appartenenza e le identità che ne conseguono; spesso sono pregiudizi che non mettiamo mai in discussione, di cui non prendiamo coscienza. Quindi per ‘sīlabbata-parāmāsa‘ intendo anche il condizionamento culturale, che si può trascendere o superare solo grazie alla consapevolezza. I pregiudizi, gli atteggiamenti che acquisiamo per osmosi, per il semplice fatto di essere nati e allevati da certi genitori in un certo gruppo sociale… non c’è niente di male in tutto ciò. Dire che alcuni sono meglio di altri è arroganza culturale, vi pare?

Gli inglesi hanno una lunga storia di arroganza culturale. Andare a salvare o civilizzare il resto del mondo, convertirlo al cristianesimo, rimetterlo in riga, liberarlo dalla barbarie, è tutta arroganza culturale. Oggi pensarla così non è più politicamente corretto, per fortuna. Ma per andare oltre l’intero meccanismo, oltre l’attaccamento agli ideali di democrazia, uguaglianza e libertà concepiti alla maniera occidentale, c’è bisogno di consapevolezza. Semplicemente, riconoscete il punto fermo, un’attenzione equilibrata e riflessiva rivolta al presente, e coltivatela. Esercitatevi a notare l’impermanenza del concetto di sé, del condizionamento culturale, il sorgere e cessare dei pensieri e del processo discorsivo.

 

Estratto del libro “Il suono del silenzio“, su gentile concessione dell’Editore Ubaldini.

 

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Letizia Baglioni