Nel Buddhismo il “dhamma-vicaya” costituisce uno dei sette fattori (bojjhanga od anche: bodhi-anga) del Risveglio spirituale buddhista, ovvero della cosiddetta illuminazione spirituale buddhista.
Tali fattori a loro volta fanno parte del Bodhipakkhika Dhamma, cioè del compendio delle 37 principali indicazioni fornite dal Buddha circa il percorso spirituale che conduce alla realizzazione buddhista. Il fattore del “risveglio spirituale buddhista” rappresentato dal dhamma vicaya, consiste nella cosiddetta “analisi ed investigazione del dhamma” (vedere anche il termine dhamma o dharma in questa enciclopedia).

L’espressione “investigazione del dhamma” significa “verifica della verità degli insegnamenti buddhisti”, cioè significa che il buddhista non deve credere per fede agli insegnamenti che riceve dai propri Maestri spirituali, neppure agli insegnamenti impartiti dal Buddha stesso, ma deve sempre fare egli stesso la propria personale esperienza della verità dell’insegnamento che gli viene offerto. Significa anche non affidarsi per fede ai propri Maestri spirituali ed ai Sacerdoti e non aspettarsi troppo dagli insegnamenti e dalle spiegazioni provenienti dagli altri o dai libri, delegando a queste spiegazioni provenienti dall’esterno una comprensione che invece il praticante buddhista può e deve raggiungere da sé stesso, per proprio intimo e personale convincimento raggiunto attraverso la propria personale esperienza vissuta.
Significa accettare sempre e solo con discernimento, evitando di concedere la propria fede a priori, la quale invece deve essere concessa sempre e solo a ragion veduta sulla base della propria verifica personale, altrimenti è mal riposta. Infatti qualsiasi fede detenuta in modo aprioristico, cioè quando essa non sia stata acquisita attraverso un percorso personale di ricerca e di verifica, in genere finisce per costituire solamente un pregiudizio ed in quanto tale ostacola quella condizione di “distacco” che il Buddhismo indica come condizione prioritaria da perseguire nel raggiungimento del corretto atteggiamento interiore, ed allora risulta molto più difficile “lasciare andare” i propri pregiudizi secondo la strada indicata dal Buddhismo stesso.

In questo differisce anche il significato del termine “saddhā”, cioè la fede nel significato buddhista, rispetto al significato religioso tradizionale.
La “fede buddista”, a cui si accosta anche il termine di “fiducia buddhista”, deve intendersi come fede o fiducia nella propria pratica e nei propri mezzi; fede o fiducia esclusivamente proveniente dalla concreta sperimentazione (dhamma-vicaya) dei risultati man mano conseguiti durante la corretta pratica buddhista.

Per il cristiano cattolico, ad esempio, la “fede” ha per oggetto esclusivamente la propria adesione a Dio e consiste specificamente in una delle “tre virtù teologali” cristiane mediante cui il cristiano aderisce ad una “verità rivelata” anche con l’intelligenza, aiutata dalla grazia, non per intrinseca evidenza di tale verità, ma per l’autorità di Dio rivelatore e per questa ragione il cristiano è chiamato a credere in Dio incondizionatamente, in quanto per il cristiano la propria salvezza è imprescindibile da detta fede, dogmatica ed aprioristica.

Nel Buddhismo, invece, il termine saddhā (fede o fiduia nel significato buddhista) non esprime l’atto di adesione incondizionata a degli insegnamenti imposti da altri dall’esterno od attraverso la dottrina ed a cui il buddhista debba credere ed aderire “per fede”; il praticante buddhista non deve accettare alcunché con sentimento di acquiescenza e non deve considerare l’insegnamento buddhista alla stregua di un “ipse dixit” da parte dei propri Maestri spirituali o del Buddha stesso, bensì “deve verificare” sempre lui stesso in prima persona la verità di ogni insegnamento buddhista che riceve, con piena consapevolezza, attraverso la sperimentazione personale della propria pratica buddhista, così come l’indicazione del “dhamma-vicaya” (l’investigazione della verità degli insegnamenti buddhisti) lo invita esplicitamente a fare.